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Vikings dopo la fine della quarta stagione è diventata lo spin-off di sé stessa

Travis Fimmel Vikings

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Vikings.

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Siamo nel 2013 e Vikings approda sui nostri schermi (in Italia disponibile su Netflix), imponendosi fin da subito come un fenomeno. Questa Serie Tv è stata capace di combinare la brutalità epica delle saghe nordiche con una narrazione carismatica, a tratti intima. Il tutto è stato incarnato dal magnetico protagonista: Ragnar Lothbrok. Per quattro stagioni, lo show ha seguito l’ascesa, le conquiste, i tradimenti e la lenta caduta di questo leader vichingo semi-leggendario. Attorno a lui si è andato a costruire un mondo vibrante, pieno di tensioni politiche, religiose e personali. Ma è proprio con l’uscita di scena di Ragnar, con la sua morte nella seconda metà della quarta stagione, che qualcosa in Vikings si è spezzato irrimediabilmente.

Non si tratta solamente della fine di un personaggio: è la fine della serie come la conoscevamo. Dopo quel momento, Vikings cessa di essere Vikings. La cronaca della vita di un uomo straordinario viene sostituita da una narrazione divisa, dispersiva, a tratti schizofrenica, che a fatica tiene le fila del discorso. Questo romanzo sulla nostalgia segue ora i figli di Ragnar e i loro percorsi di vita separati, geograficamente e narrativamente. Talvolta, incoerentemente.

Quasi come una nuova serie, Vikings dopo la quarta stagione non rinnega il suo passato, anzi. Se lo strascina dietro, pesante e logorante, incapace di integrarlo e raggiungere la sua stessa magnifica epicità, facendone una serie tv dall’eredità complessa.

Vikings è diventata lo spin-off di sé stessa: un nuovo show dentro il vecchio, nato dalle sue stesse ceneri, ma incapace di replicarne lo spirito.

Ragnar

Il finale della quarta stagione di Vikings rappresenta una cesura netta, quasi brutale, nel percorso della serie. La morte di Ragnar Lothbrok — il protagonista assoluto e collante narrativo — segna un punto di non ritorno che trasforma profondamente la natura del racconto. Da quel momento in poi, Vikings non è più la storia di un uomo e della sua visione, ma quella di una generazione perduta tra ombre paterne, guerre fratricide e ambizioni irrisolte. In questo passaggio, la serie perde l’unità tematica che l’aveva resa così efficace.

Fino alla quarta stagione, Vikings aveva un’identità chiara: era il ritratto di Ragnar, delle sue conquiste e dei suoi tormenti. I comprimari — da Lagertha a Rollo, da Floki a Bjorn — orbitavano intorno a lui, contribuendo a creare un microcosmo in cui il potere, la fede e il destino si intrecciavano in modo coerente. Ma con la sua uscita di scena, lo show si trova costretto a reinventarsi. E invece di scegliere una nuova e unica direzione forte, opta per la moltiplicazione: segue i percorsi dei figli di Ragnar, divisi su più fronti, in più luoghi, con obiettivi spesso divergenti e narrativamente scollegati.

Da un lato c’è Ivar il Senz’ossa, il figlio più controverso, la cui discesa nella follia e nella tirannia occupa gran parte della quinta stagione. Dall’altro c’è Bjorn, erede naturale di Ragnar, ma incapace di raccoglierne davvero l’eredità spirituale. In mezzo, gli altri fratelli — Hvitserk e Ubbe — che cercano una loro strada tra missioni esplorative e tentativi di pacificazione con i cristiani. Questi fili narrativi raramente si incontrano, e quando lo fanno è più per esigenze di trama che per un reale disegno organico. Il risultato è una sensazione di frammentazione continua, dove ogni arco narrativo sembra appartenere a una serie diversa.

Dalla quinta stagione viene meno la dimensione introspettiva e la Serie perde la propria essenza più intima.

Questa scissione è ancora più evidente se si considerano le differenze di tono, ritmo e stile tra le due “anime” della serie. Le stagioni 1-4 erano un racconto introspettivo e filosofico sotto la maschera dell’epica; le stagioni successive, invece, sono molto più orientate all’azione, spesso a scapito della coerenza emotiva. I personaggi sembrano mossi più dalla necessità di mantenere viva la trama che da una reale evoluzione interiore. Perfino i momenti mistici, un tempo autentici e ambigui, diventano formule ripetitive, come se la serie cercasse di imitare sé stessa.

In effetti, è proprio questa l’impressione più persistente: che Vikings, dopo la quarta stagione, si stia auto-citando, riproponendo le stesse dinamiche con nuovi personaggi e nuovi contesti, ormai però è priva di quell’intensa originalità. Ivar ricalca oltremisura il giovane Ragnar, ma senza la sua profondità; Bjorn è una caricatura dell’eroe tragico, ma senza la sua consapevolezza; Floki diventa una figura sempre più marginale, simbolo di un passato spirituale che la serie non sa più come gestire.

Non è retorica: le ultime due stagioni di Vikings sono davvero uno spin-off nel vero senso del termine, solo che partono dal finale della Serie originale.

Mentre uno spin-off dichiarato può permettersi di reinventare il tono e i personaggi, qui il cambiamento è avvenuto all’interno dello stesso corpo narrativo, creando una frattura interna. Il pubblico è rimasto con la memoria di Ragnar e con l’aspettativa di una continuità che non è mai arrivata del tutto. E questo ha generato un senso di straniamento, amplificato dal fatto che i nuovi protagonisti non sono mai riusciti a generare lo stesso coinvolgimento emotivo. Ammettiamolo: il potenziale c’era tutto. Abbiamo amato Ivar, Bjorn, Ubbe e Hvitserk, ma ognuno dei figli di Ragnar incarna solo un aspetto del padre. Privati dell’unica bussola che li univa, sono diventati personaggi che, per mandare avanti la narrazione, si affidano solo all’azione, privandosi della fondamentale crescita interiore.

Va detto che Vikings ha comunque mantenuto alcuni dei suoi punti di forza anche nelle stagioni post-Ragnar: le scenografie, le battaglie spettacolari, la cura per il folklore norreno. Ma tutto questo non è bastato a colmare il vuoto lasciato da un protagonista così totalizzante. Ragnar non era solo un personaggio: era la bussola morale, spirituale e narrativa della serie. Senza di lui, Vikings ha perso la rotta, pur cercando di mantenere la sua identità visiva e mitologica.

In conclusione, la fine della quarta stagione non ha segnato solo la morte di un personaggio, ma la metamorfosi di un’intera serie. Vikings non è semplicemente andata avanti: ha cambiato pelle, tono, prospettiva. È diventata qualcosa di diverso, pur rimanendo apparentemente sé stessa. In questo senso, è lo spin-off più fedele e, al tempo stesso, più distante che potesse nascere.