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The White Lotus: una cosa divertente che rifaremo ancora

“E allora oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell’aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull’aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di ammazzare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato”.

Inizia così il reportage commissionato dalla rivista Harper’s Magazine a David Foster Wallace, pubblicato poi con il titolo Una cosa divertente che non farò mai più. È il 1997 e lo scrittore ha trascorso una settimana su una crociera extralusso ai Caraibi.

“C’è qualcosa che lega quello che ho appena visto a qualcosa che ho letto una volta”.

Inizia così la mia idea su questo racconto. È il 2023 e sono appena tornata da due viaggi: uno alle Hawaii e uno a Taormina, ma non mi sono mai mossa dal divano. Ho finito la seconda stagione di The White Lotus.

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Locandina di The White Lotus, seconda stagione (640×360)

Quindi eccoci qui, parafrasando Wallace, a fare “il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che” abbiamo visto e sentito, sfruttando un testo che, con una prosa sublime, fa un’operazione analoga a quella tentata (e riuscita) da Mike White con le due stagioni di The White Lotus.

Le similitudini tra l’opera di Foster Wallace e quella di White sono molteplici sia nella trama, che nel taglio satirico, oltre che nel piglio un po’ cinico. Certo, quello dello scrittore è un reportage e, come tale, ci presenta uno spaccato della realtà. Invece, quella realizzata da White è chiaramente una fiction, con connotazioni però di verosimiglianza.

Le ambientazioni, inoltre, che potremmo anche definire – forzando un po’ la definizione di Augè – nonluoghi, sono in tutti e tre i casi delle vetrine. Non siamo davvero ai Caraibi, alle Hawaii e a Taormina: siamo nella confezione zero-impegno creata ad hoc di questi tre luoghi reali. Siamo nella calamita da attaccare al frigo, nella cartolina, nel post acchiappa like di instagram, non nella vita vera e incasinata di questi luoghi.

Siamo nelle vacanze dei ricchi. Siamo nei posti di lavoro di alcuni decisamente meno ricchi.

Cameron, Daphne, Ethan e Harper (640×360)

I nonluoghi sono il regno dell’individualismo solitario e, benchè in The White Lotus tutti i personaggi abbiano rapporti con altri personaggi, in fondo, ci viene sbattuta in faccia la loro soverchiante ed egoistica solitudine, frutto di quell’individualismo occidentale sicuramente troppo nutrito. 

Sia Mike White che Wallace ci regalano  un mix irresistibile di divertimento, satira, cinismo e amarezza. 

Ma procediamo per gradi. (Virgolettate a destra, le citazioni tratte da Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace).

Se dovessimo definire The White Lotus in tre parole, probabilmente diremmo che si tratta di una “tragicommedia del privilegio”. Sì, perché, in fondo, è il privilegio (di classe, etnico, di genere) a essere il vero protagonista di queste rocambolesche storie.  Se la mettiamo in questi termini, però, dobbiamo allora dire che la co-protagonista è la condizione umana in generale. Non più solo quella dei ricchi, dei bianchi e dei maschi, ma di tutto il bestiario umano che scorre sullo schermo (e che vi passeggia fuori).

Tanya McQuoid (Jennifer Coolidge) e il marito Greg (Jon Gries).
The White Lotus, seconda stagione (640×360)

Da una parte troviamo l’espressione del privilegio dell’ upper class americana che vive di relazioni transazionali (ben esemplificati dal rapporto di Tanya e Belinda nella prima stagione e Portia nella seconda e sempre in questa da Albie e suo padre Dominic), annullamento della propria individualità e ambizioni (come accade a Rachel nel matrimonio con Shane, nella prima stagione), relazioni amorose in cui  tradimenti, bugie e ipocrisie sono accettati come inevitabili (si pensi a Daphne e Cameron nella seconda stagione), slanci abortiti di sovvertimento del proprio status (come accade nelle storie di Paula e Kai o Tanya e Belinda nella prima stagione), per dirne solo alcuni.

“Ho visto spiagge di zucchero e un’acqua di un blu limpidissimo. Ho visto in completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato “Mister” in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide.”

Ho visto sorridendo le manie, le idiosincrasie, le ossessioni, le ipocrisie, le miserie di tutti i personaggi che abitano la trama delle due stagioni e quel che è peggio è che li ho giudicati tutti, nel bene e nel male, ma in un angolino remoto della mia coscienza una vocina mi sussurrava: “Sei sicura di non assomigliargli neanche un po’?”.

Quando ti coglie la consapevolezza di essere in qualche modo parte di quella società – qui mostrata nelle sue manifestazioni peggiori –  che tanto ti sembra infantilmente ridicola e viziata, il sorriso si fa più amaro. 

“Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il Buffet di Mezzanotte.”

Il miglior pregio di The White Lotus, a nostro avviso, risiede nel metterci sotto gli occhi, in un bilanciamento perfetto, la ridicolaggine di questa presunta umanità di serie A che paga per essere coccolata e assecondata in ogni desiderio fino al parossismo e la miseria morale ed emotiva in cui è spesso immersa. Qualcuno vive questo dualismo impunemente (Shane, Cameron e Daphne), qualcuno inizia ad avvertire un senso di colpa o di vuoto che lo spinge a tentare di cambiare la propria esistenza, la maggior parte delle volte ricadendo nel meccanismo da cui cercava di smarcarsi (Tanya, Rachel, Paula o Harper).

“In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicati ed effetti semplicissimi:(…) io mi sentivo disperato.”

E se non cambia la vita dei ricchi avventori dell’immaginaria catena di alberghi di lusso, lo stesso vale per la maggior parte dello staff. Per una parte minore della quale, invece, gli eventi volgeranno addirittura al peggio.

Certo, qualcuno una piccola vittoria se la prende (Lucia, nella seconda stagione, si porta a casa un bel gruzzoletto, prendendosi forse una rivincita sulla famiglia Di Grasso), ma ci viene mostrata anche la disillusione di chi aveva sperato nella realizzazione di un sogno (Belinda) o in una piccola rivincita sociale (Kai) e si ritrova in una situazione peggiore di quella di partenza.

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Simona Tabasco in The White Lotus (640×360)

Anche qualora i personaggi tentino di affrancarsi dalla propria storia, ecco che ricadono nella trappola dorata del privilegio: economico, per Tanya che cerca di creare un rapporto genuino con Belinda – non transazionale – promettendole di aiutarla nella realizzazione dei suoi sogni professionali e finendo poi per negarle il suo aiuto e lasciarle dei soldi; etnico e di classe, per Paula, che sprona Kai a “rubare a chi ha rubato alla sua gente”, ma non interviene quando il ragazzo viene arrestato; di genere, per i tre Di Grasso, che hanno semplicemente subito l’evoluzione di un maschilismo generazionalmente tramandato (come si può osservare nella scena dell’aeroporto dove tutti e tre si girano a guardare la ragazza che passa loro vicino).

E così, alla fine di ognuna delle due stagioni, nonostante l’evoluzione della trama, ci resta quasi certezza che, in fondo, da quegli eventi i personaggi non abbiano imparato poi molto, che “quella cosa divertente”, la faranno ancora.

Come il fiore di loto dell’Odissea che una volta mangiato produce dimenticanza del passato e desiderio di rimanere laddove si è, così questa vacanza nei resort “loto bianco” sembra rendere i protagonisti dimentichi di quanto potrebbe aver invece insegnato loro, pronti a rientrare nei medesimi meccanismi che li hanno condotti in questi meravigliosi hotel: in qualche modo loro “restano lì”.

Lo staff di The White Lotus, prima stagione (640×360)

L’eredità di Foster Wallace, quella resistenza convinta a una vita di cui sente di non voler esser parte, è raccolta solo nella prima stagione dal giovane Quinn, che attende che la sua famiglia si imbarchi per tornare a casa, scappando dall’aeroporto, preferendo rimanere con i canoisti hawaiani che gli hanno fatto sentire, forse per la prima volta in vita sua, un senso di appartenenza genuino, fuori dalle dinamiche del possesso.

Per quanto riguarda noi, guardare The White Lotus è stato motivo di riflessione, oltre che una cosa divertente che rifaremo ancora.