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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste incappare in spoiler su The Terminal List: Dark Wolf.
Lo spin-off dedicato a Ben Edwards era nell’aria da tempo. Il personaggio, introdotto in The Terminal List, aveva conquistato il pubblico con la sua miscela di carisma e ambiguità morale. Adesso, con The Terminal List: Dark Wolf, Prime Video prova a costruirci intorno un prequel in piena regola che racconta come un ex Navy SEAL finisca per arruolarsi tra le fila della CIA.
Le prime tre puntate, uscite lo scorso 27 agosto 2025, offrono subito un assaggio chiaro: non è una serie che vuole reinventare il genere, ma una produzione muscolare. Fatta da gente che conosce bene le regole del gioco. Con i suoi pregi (autenticità, ritmo, attori solidi) e i suoi difetti (retorica, lentezza iniziale, poca sfumatura politica), il risultato è un racconto che non lascia indifferenti.
Dalle sabbie di Mosul al centro dell’Europa

La storia comincia nel 2015, a Mosul, in piena guerra contro l’ISIS. Ben Edwards (Taylor Kitsch) e Raife Hastings (Tom Hopper) si trovano al fianco delle forze speciali irachene. Il loro compito è quello di addestrare la nascente forza dell’ISF (Iraqi Security Forces) nella lotta contro il Califfato e di fornire appoggio militare, per ogni evenienza. Ma una missione fallita, gestita con mano eccessivamente pesante, porta alla loro rimozione dal corpo dei SEAL.
Ed è qui che entra in gioco la CIA, incarnata da Jed Haverford (Robert Wisdom). Un agente dal tono calmo, lo sguardo penetrante e la battuta pronta. Poche parole ben mirate, un ricatto morale e un’offerta che non si può rifiutare. Ingredienti sufficienti per arruolare i due fuoriusciti. Un’accelerazione narrativa, però, che fa sorridere. E un po’ storcere il naso. Ma come? Due militari sbattuti fuori perché desiderosi di fare le scarpe ai servizi segreti che si piegano in pochi secondi alle logiche spietate di Langley?
Le prime tre puntate delineano bene il percorso: l’addestramento in Iraq, la prima operazione di reclutamento in Austria (tra night club e gadget tecnologici da spy-movie), e infine la missione più ampia, che mette in palio un traffico di componenti nucleari. In mezzo, fratellanza, rituali militari, e tanto metallo che stride contro le mura.
The Terminal List: Dark Wolf e la retorica muscolare
La regia è sobria, precisa, mai eccessiva. I registi Frederick E.O. Toye, Liz Friedlander e Paul Cameron non cercano l’estetica spettacolare a tutti i costi: preferiscono un realismo chirurgico, quasi documentaristico.
Eppure, nonostante questo mestiere impeccabile, The Terminal List: Dark Wolf non riesce a liberarsi da una retorica pesante, quasi oppressiva. La serie non si pone troppe domande: i buoni sono buoni, i cattivi sono cattivi, e chiunque metta in discussione l’azione dei difensori è, per definizione, parte del problema. La CIA non è più un’agenzia con interessi geopolitici che agisce per il bene comune, anche a costo di fare cose brutte.
È più esplicita di Jack Ryan, più manichea di Homeland, più muscolare di Reacher. E non si preoccupa di nasconderlo. Anzi, ne fa un punto di forza. Perché in The Terminal List: Dark Wolf, la violenza non è un male, ma un mezzo. I danni collaterali e le conseguenze geopolitiche? Non si vedono. Non si sentono. Non interessano.
Il risultato è un racconto che, se da un lato regge sul piano dell’azione, dall’altro appiattisce ogni possibile ambiguità morale. E quando prova a toccarla sembra quasi un momento di disturbo, un’interruzione del flusso narrativo. Poi torna la musica (grande colonna sonora) e tornano le esplosioni. Avanti, verso un’altra missione!
Taylor Kitsch: il peso di Ben Edwards
Se la serie regge, lo deve soprattutto a Taylor Kitsch. Il suo Ben Edwards è un antieroe credibile, segnato da ferite che emergono a scatti più che a parole. L’attore dosa bene i silenzi e i momenti di esplosione fisica, riuscendo a tenere la scena anche quando la sceneggiatura si appoggia a dialoghi un po’ troppo didascalici.
La sua fisicità “stanca” e il volto segnato, gli conferiscono la credibilità necessaria per interpretare un personaggio che porta sulle spalle il peso di un’intera serie. Non è un eroe monolitico alla Reacher, né il burocrate combattente di Jack Ryan: è un uomo sospeso, incapace di esprimere le sue emozioni ma in grado di far trasparire umanità anche sotto la corazza.

Il grande cast secondario
Se Kitsch è il cuore, il cast secondario è l’anima di The Terminal List: Dark Wolf. E qui la serie sorprende.
Tom Hopper, nei panni di Raife Hastings, è più di un semplice spalla. È il contraltare perfetto di Edwards: più calmo, più riflessivo, con un passato familiare legato che viene fuori spesso.
Il loro rapporto è la vera colonna vertebrale emotiva della serie anche se in alcuni momenti rischia di apparire un po’ ridicolo. Come quando si sfila l’auricolare, chiude gli occhi e si concentra per reperire la sua preda.
Poi c’è Dar Salim, che interpreta Mo Farooq, un ufficiale delle forze speciali irachene. Ed è qui che The Terminal List: Dark Wolf prova a fare un passo fuori dal solco. Mo non è un alleato per convenienza: è un uomo che combatte per il suo paese, con le sue ragioni, i suoi dubbi, la sua dignità. Ogni volta che parla, porta con sé una prospettiva diversa, meno allineata alla visione americana. E ogni volta che appare, ricorda che la guerra non è mai solo noi contro loro.
Infine, Rona-Lee Shimon, già nota per Fauda, interpreta Eliza, un’agente del Mossad. La sua presenza aggiunge un livello ulteriore di complessità, soprattutto in un momento storico delicato. La serie non si pone troppe domande sul ruolo di Israele, ma Shimon riesce a dare profondità al personaggio con sguardi, silenzi, gesti. E la sua alchimia con Kitsch è travolgente: non è solo attrazione, è complicità, tensione, guerra.
Cosa funziona. E cosa no
La serie ha indubbiamente dei punti di forza che la rendono godibile, soprattutto quando si tratta di azione e dinamiche tra i personaggi. Le missioni, a partire dall’assalto in Austria, sono ben confezionate. Tese, coreografate con cura e sostenute da una colonna sonora che dosa bene classici rock come AC/DC e Pink Floyd con atmosfere più cupe e minacciose.
Funziona anche la fratellanza. Tra Edwards e Hastings, c’è un rapporto credibile che riesce a bilanciare momenti di pura adrenalina con pause più introspettive, evitando di scadere nel machismo più banale.
Sul piano tecnico, poi, il mestiere si vede. Le missioni sono costruite con cura, i movimenti di macchina sono misurati, la fotografia bilancia luci e ombre con coerenza. Non c’è il caos caotico di un Call of Duty, ma una coreografia studiata, dove ogni sparo ha un senso, ogni esplosione un obiettivo.
Dall’altra parte, però, ci sono diversi elementi che frenano il ritmo e appiattiscono il potenziale. La prima puntata, ad esempio, è troppo lenta, appesantita da spiegazioni didascaliche che avrebbero potuto essere integrate con più eleganza nella narrazione.
E poi c’è quel senso di déjà vu che non abbandona mai. Troppe situazioni sembrano uscite da altri prodotti, con richiami evidenti a serie come Homeland per il tono politico, Reacher per la fisicità dei protagonisti e Jack Ryan per l’impianto dell’intelligence. Il problema è che qui manca la profondità di quei modelli. In più, la serie non si libera da un certo alone propagandistico. La CIA ricatta emotivamente, il mondo è diviso in bianco e nero, e le conseguenze geopolitiche delle azioni restano inesplorate.
Alla fine, tutto questo appiattisce il discorso, trasformando quello che potrebbe essere un racconto complesso in una narrazione più convenzionale di quanto ci si aspetterebbe.
The Terminal List: Dark Wolf. Un lupo che ringhia ma che non ha ancora azzannato
Dopo tre episodi, il bilancio è chiaro: The Terminal List: Dark Wolf non è un capolavoro, ma è un prodotto solido, costruito con mestiere e pensato per chi ama il genere. L’avevamo già detto della sua serie madre. Parte lenta, col rischio di prendersi troppo sul serio, ma poi ingrana con missioni avvincenti e un cast che funziona meglio del previsto.
Finora sa di già visto. Eppure, nonostante tutto, ha la forza e la capacità di tenerti incollato alla poltrona perché ti lascia addosso quella voglia di sapere come andrà a finire.
Non cambierà la storia delle serie tv. Non vuole farlo. Ma ti terrà sveglio la sera, con il telecomando in mano e la mente altrove: tra ponti saltati in aria, centrifughe nucleari e fratellanza sbandierata come un vessillo. E alla fine, mentre Taylor Kitsch si allontana in mezzo al fumo con lo sguardo perso, ti verrà da pensare: forse non è un eroe. Forse è solo un uomo che ha smesso di chiedersi se ha ancora senso combattere. Ma almeno, per ora, continua a muoversi. E a volte, in un mondo di serie che parlano troppo e fanno troppo poco, è già abbastanza.






