“Realizzare uno show che inizia con 15 episodi (e ricordate, torneremo a gennaio), non è quello che stanno facendo molti vincitori di Emmy in questo momento”.
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Così Casey Bloys, CEO di HBO, ha commentato alcune settimane fa lo straordinario trionfo di The Pitt agli Emmy 2025, nei quali ha conquistato le ambite statuette destinate alla miglior serie drama e al miglior attore protagonista nelle serie drama. Già, un risultato straordinario. In più sensi. E inatteso alla vigilia. La competizione, d’altronde, era agguerrita: Scissione sembrava imbattibile e Noah Wyle, uno che il suo sacrosanto Emmy l’ha vinto con trent’anni di ritardo, ha sconfitto nomi d’alto profilo, consacrandosi definitivamente tra i grandissimi del piccolo schermo. The Pitt, oltretutto, era reduce dalla prima stagione, e affermarsi da subito con questa autorevolezza è di per sé notevole. Tutto ciò, tuttavia, è solo la punta dell’iceberg: l’exploit del medical di Max, infatti, potrebbe rappresentare un fondamentale crocevia nella storia contemporanea delle serie tv.
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Non stiamo esagerando: la citazione con cui abbiamo aperto il pezzo ha sfumature che evocano una vera e propria rivoluzione. La rivoluzione di The Pitt. O se preferite, una restaurazione.
Una rivoluzione firmata, paradossalmente, da un network che ventisei anni fa aveva dato un senso differente alla fruizione della tv con l’avvento di uno dei più grandi capolavori mai visti: I Soprano. Era così iniziata la golden age del piccolo schermo, portata poi avanti da Breaking Bad, Mad Men e decine d’altre serie tv d’alto livello tra il 2000 e il 2015: l’autorialità più eccelsa aveva restituito una dignità cinematografica a quello che non era più un fratello minore. Dalla golden si passò poi alla peak tv: l’era della sovrabbondanza generata dall’impulso dello streaming, in particolare da Netflix.
Ma quella corsa verso l’alto aveva un limite naturale. Dopo l’ubriacatura della peak tv, era inevitabile che arrivasse il contraccolpo.
La pandemia segnò il picco e l’inizio della discesa del fenomeno. Le serie tv erano tante, ed erano un bene quando mezzo mondo si era ritrovato chiuso in casa da un giorno all’altro. A un certo punto, però, divennero troppe. La gente, parallelamente, era tornata fuori dalle proprie case. L’effetto boomerang ha portato a una crisi dello streaming e alla necessità conseguente di ridurre i costi ed elaborare modelli più sostenibili, portandoci agli scenari attuali.
Non addentriamoci oltre nel tema: ne abbiamo parlato ampiamente negli ultimi due anni. La rapida contestualizzazione, tuttavia, non è una divagazione: è fondamentale per dare una dimensione storica decisiva al trionfo di The Pitt. La sua rivoluzione era stata anticipata da noi in due articoli, pubblicati rispettivamente nel 2023 e nel 2024. Nel primo avevamo immaginato una sorta di ritorno al futuro dello streaming televisivo, dopo l’esplosivo esordio della prima fase: dal ritorno degli appuntamenti settimanali ai pacchetti con la pubblicità inclusa, passando per il ritrovamento di programmazioni più generaliste e tanto altro, avevamo ipotizzato un cambio di strategia dei principali player dello streaming dopo la fine della peak tv, Netflix inclusa.
Fummo facili profeti, e ora ci ritroviamo con una tv in streaming sempre più affine alla vecchia tv tradizionale che sembrava aver messo definitivamente in secondo piano. Non sovrapposta, sia chiaro: invece di aver portato la vecchia tv ad avvicinarsi a essa, tuttavia, è successo il contrario.
L’articolo del 2024, invece, prese in esame un altro tema caro agli appassionati di serie tv: i lunghissimi tempi d’attesa tra una stagione e l’altra. Ne analizzammo ampiamente le cause e le conseguenze. Ne parlammo anche a proposito di The Bear: la serie FX stava diventando l’esempio più evidente di come la qualità autoriale potesse (e dovesse) convivere con una produzione annuale costante in un panorama in evoluzione.
A un certo punto citammo direttamente John Wells, storico produttore di serie tv del calibro di E.R. e The West Wing. Wells sottolineò perché quelle tempistiche fossero un gigantesco problema: “Il pubblico si affeziona a uno show. Quando rimane lontano per troppo tempo, è facile disinnamorarsi e dimenticare cosa lo abbia attratto in primo luogo”. Continua: “Non avere [nuovi episodi] disponibili per un lungo periodo è uno dei motivi per cui gli show subiscono il declino anziché consolidare il pubblico. Ciò vale anche per gli show che hanno successo nel loro primo anno”.
Il produttore, d’altronde, sa di cosa parla: “Si sta creando familiarità con i personaggi, quindi costruire un pattern è molto utile. È sempre meglio che gli show tornino il più rapidamente possibile, stagione dopo stagione. La regolarità fa sì che le persone tornino”. In chiusura, parlammo brevemente di un nuovo progetto in arrivo da lì a pochi mesi che avrebbe potuto dare una risposta a queste problematiche. Un medical drama in arrivo sulla HBO di cui Wells è uno dei principali artefici. Con una convinzione, da parte sua: il pubblico ha bisogno di molte puntate senza dover attendere una vita tra una stagione e l’altra. Come spiegammo, la “conversione” del modello produttivo necessitava di un fisiologico tempo d’adeguamento per gli autori, ma era fiducioso: “Dobbiamo solo riprendere l’abitudine e penso che il pubblico ci premierà.”
Come potreste aver intuito, quella serie tv è The Pitt.

La citazione iniziale è così la sintesi ideale di tutto ciò che The Pitt rappresenta.
Il medical drama ricostruisce un singolo turno da quindici ore in un pronto soccorso di Pittsburgh, è distribuito da HBO Max e si struttura su una base di quindici puntate a stagione, proiettata potenzialmente su una serialità distribuita su molte stagioni: un lusso per gli standard attuali. Così come è un lusso centrare l’obiettivo evocato da Wells: andare in onda di anno in anno, di settimana in settimana per quasi quattro mesi, senza più dilatare i tempi. Oltretutto, con costi piuttosto ridotti: ognuna delle puntate della prima stagione di The Pitt è costata tra i quattro e i cinque milioni a episodio. Non pochi in generale, ma fuori scala per una serie che sta ottenendo un riconoscimento da parte della critica piuttosto insolito per un titolo che si inserisce, convintamente, sul solco di una lunghissima tradizione del genere.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe sottolineare che The Pitt non stia facendo niente di nuovo, e in parte avrebbe ragione. Anche Grey’s Anatomy, medical storico della tv americana, è ancora in onda ed è trasmesso di anno in anno con stagioni molto lunghe: la ventunesima, conclusasi lo scorso maggio, ne conta diciotto. Siamo ormai distanti dalle venticinque della quindicesima o addirittura dalle ventisette della seconda, ma è più che fisiologico: questa è un’era televisiva completamente diversa. Grey’s Anatomy è solo un esempio: le principali tv lineari statunitensi continuano a proporre in tanti casi i modelli televisivi di un tempo, seppure rivisti e innovati su vari fronti. E allora domandiamocelo: perché quella di The Pitt è una rivoluzione?
Risposta breve: The Pitt risponde alle stesse esigenze del pubblico di Grey’s Anatomy, ma con una vocazione autoriale più vicina agli standard della golden age televisiva. Insegue target ancora più trasversali e poi, soprattutto, vince gli Emmy più ambiti.
Ovviamente, la questione è più complessa di così. Il merito principale di The Pitt, quindi, è rappresentato dalla sua capacità di essere l’anello di congiunzione ideale tra la vecchia concezione seriale di Grey’s Anatomy, uno spirito che rievoca E.R. e l’approccio da prestige tv che ha fatto grande la HBO. È il compromesso perfetto, ed è per questo riproducibile su vari fronti. Tanto da poter essere un riferimento decisivo per la tv dei prossimi anni. The Pitt ha la forza industriale della tv lineare degli anni Novanta o dei primi Duemila, ma è una candidata più che autorevole per i premi più importanti: un po’ come era West Wing nei primi anni Duemila o la già citata E.R., per dire. Due nomi non casuali, visto che l’elemento di continuità è sempre John Wells. E nasce dall’intuizione di Bloys, pronto a proiettarsi nel domani con alcune delle grandi lezioni del passato.
Lo chiarisce bene in un’intervista rilasciata lo scorso marzo a Vulture, nel quale celebrava il successo di The Pitt: “Realizzare solo dodici episodi sembrava un’estensione di una serie in streaming. Quando sono arrivato, alla HBO ne facevamo dodici. Si è poi ridotto a dieci e poi, più di recente, a otto. L’idea era di impegnarsi davvero. Non pensavo che ventidue fosse realistico fin dall’inizio. Quindici mi sembravano più di quanto si ottenesse normalmente, ma qualcosa in cui John e il team avrebbero potuto realizzare qualcosa di creativo che li soddisfacesse davvero”.
Bloys ha le idee chiare: “Eravamo intenzionati a volere una serie in stile network, ovvero più lunga di sette o otto episodi. Volevamo specificamente una serie che potesse andare in onda per quindici episodi a stagione, perché per noi significa quindici settimane di impegno. Volevamo anche poterla realizzare con un budget sostenibile”.
Non è tutto: oltre a essere tutto ciò, The Pitt è un “cheeseburger gourmet”.

Abbiamo spesso preso in prestito la definizione da Bela Bajaria, attuale Chief Content Officer di Netflix, per definire una sezione fondamentale di serie tv della sua piattaforma, ed è valida anche per il medical HBO: è una portata di sostanza alla portata di tutti, ma con una vocazione qualitativa d’alto livello che intriga anche i palati più esigenti. Non è Breaking Bad ma non è nemmeno Grey’s Anatomy, con tutto il rispetto per una serie che ha fatto la storia. E quante volte un cheeseburger gourmet ha vinto un Emmy come miglior serie drama? Poche, pochissime. Pressoché mai, negli ultimi anni. Ecco, allora, la rivoluzione.
Alla base, c’è una trama solida che ricerca complessità attraverso chiavi immediate. La prima stagione di The Pitt concentra una singola giornata in un’intera stagione, sovrapponendo sostanzialmente i tempi del racconto a quelli reali.
Quindici ore di turno in quindici puntate da cinquanta minuti circa: il contesto è caotico, vorticoso. Ricorda da vicino i piani sequenza impazziti della prima stagione di The Bear, riuscendo parallelamente a costruire intrecci emotivi con personaggi intrisi di spessore narrativo. L’azione è incalzante, e in tal senso è un esercizio notevole di scrittura: sa unire il drama più intenso a inaspettati momenti di alleggerimento, portando avanti percorsi di crescita e di approfondimento riassunti spesso in singole espressioni o passaggi fulminei. The Pitt è per questo l’accattivante creatura di abili equilibristi.
Ciò sostiene un’impalcatura classica con un linguaggio abbastanza tradizionale da coinvolgere il pubblico alieno alla prestige tv, ma abbastanza innovativo da superare le barriere di genere e intercettare anche la platea più canonica della HBO. Con una formula che non rappresenterà più una mera eccezione: gli Emmy potrebbero aver celebrato l’inizio di una nuova era. Un’era che potrebbe andare oltre la gloria di The Pitt.
Negli ultimi mesi, d’altronde, si è discusso spesso a proposito di quale direzione potrebbe intraprendere la televisione del domani. E l’abbiamo evidenziato ampiamente in apertura: il processo di rinnovamento dello streaming passa attraverso un indispensabile “ritorno al futuro”. In un articolo dello scorso aprile, il magazine The Ankler ha esposto l’importanza di The Pitt nel panorama attuale. Al di là delle considerazioni sulla bontà del racconto, evidenzia come l’over-produzione degli anni a cavallo tra la pandemia e la fase immediatamente successiva sia ormai insostenibile. E come lo streaming necessiti ora di un’idea di serialità che miri alla produzione di meno titoli, ma con una fidelizzazione più solida sul lungo periodo. E come? Con la formula di The Pitt: una stagione all’anno, molti episodi, passaggi settimanali e standard qualitativi degni di un Emmy come miglior serie drama.
Ciò contribuirà alla costruzione di cataloghi più funzionali per i player dello streaming. Invece di privilegiare le sole (costosissime) serie evento che albeggiano e tramontano nell’arco di poche settimane, si offrirà al pubblico un rinnovamento di tipologie di titolo che rispondono a esigenze sempre presenti.

Credits: HBO
Per intenderci, non è un caso che Netflix abbia investito tantissimo per la permanenza di Friends nel suo catalogo, pur essendo andata in onda per la prima volta trentuno anni fa. Per non parlare dei successi postumi di The Office, Prison Break o Suits: le storiche sitcom da un lato, i procedurali dall’altro. Procedurali che sconfinano in vari generi, e che coinvolgono in qualche modo la stessa The Pitt. Ora, infatti, è il momento di passare dalla riproposizione allo sviluppo di nuovi progetti con questa identità.
“L’obiettivo finale è creare una rendita perpetua grazie a cataloghi ampi di serie, che possono essere noleggiate continuamente anche per decenni”, ha spiegato un professionista degli studios rimasto anonimo sempre a The Ankler. Serie che spiccano nel rapporto tra investimento e resa, come spesso non hanno fatto le serie tv di nuova concezione proposte da Netflix o dagli altri player dello streaming. Nello stesso articolo, un agente di Hollywood di grande esperienza, rimasto anonimo, definisce per esempio il ruolo delle miniserie: “Il numero di miniserie è molto aumentato quando sono nate le piattaforme, e tutte volevano delle star, perché si riteneva che fosse importante per gli spettatori”. Ma questa è stata una fase. Una fase che ha fatto grande progetti come quelli di Netflix e ci ha permesso di ammirare sul piccolo schermo star “impensabili” del calibro di Al Pacino o Robert De Niro.
Ha reso le piattaforme competitive e credibili ai massimi livelli. Le ha messe al centro delle dinamiche del piccolo schermo, e non è poco. Queste tipologie di progetti, però, non possono più reggere da sole i vari progetti editoriali.
Sono costosi fenomeni passeggeri, ideali per accrescere il prestigio con grandi storie, ma aliene a modelli distribuitivi che potrebbero costruire una base fondativa su produzioni più accessibili. Proprio per questo, The Pitt è un passaggio fondamentale anche per la HBO. Come avevamo evidenziato qualche tempo fa, “non è più quella di un tempo” perché non può più esserlo in questo mondo, ma non è necessariamente un male.
Colpisce in particolare un’idea che emerge dal successo del medical, a patto che sappia mantenere questa costanza negli anni: è qui che potrebbe svilupparsi il vero core business del domani, per la storica tv via cavo. Un core business che parte da The Pitt e permette, grazie al suo notevole ritorno, di continuare anche sulla strada di The Last of Us, The Penguin o House of the Dragon, giusto per rendere l’idea di serie con una concezione da prestige tv.
L’una non sostituisce l’altra: al contrario, si sostengono a vicenda. È una sinergia imprescindibile, con un chiarimento fondamentale: The Pitt è pensata per Max, non per la classica HBO. Un dettaglio, per i più. Ma in realtà è una questione di sostanza: la piattaforma di streaming, infatti, sta cercando un’identità che potrebbe associarla sempre più ai network tradizionali, ma con un’autorialità più vicina a quella della tv che ci ha regalato alcuni tra i più grandi capolavori mai visti sul piccolo schermo.
Se da un lato si porta avanti una progettualità connessa alla storica HBO, quella dei Soprano e dei capolavori che tutti conosciamo, dall’altra si riaffacciano all’orizzonte i modelli più sostenibili di The Pitt, all’interno di Max.
Lo chiarisce anche Bloys nella già citata intervista a Vulture: “Era chiaro che un programma dovesse essere diversificato. Sì, quelle serie di grande successo, quelle della HBO, vanno incredibilmente bene. Portano un sacco di abbonati. Ma non può essere solo The Last of Us e House of the Dragon. Sono serie fantastiche e sono entusiasta di averle, ma richiedono un turnaround di due anni, sette o otto settimane di impegno – e io ho un programma di 52 settimane. Devo mantenere il pubblico coinvolto per tutto l’anno, quindi bisogna cercare altre cose che possano farlo. Ci deve essere un certo equilibrio”.
Già, un equilibrio. Perché il futuro passa anche da qui: come testimoniano le esperienze diversificate del panorama globale, non è l’unico futuro possibile, ma l’unico che al momento potrebbe offrire ampie garanzie con rischi limitati. Un futuro in cui il piccolo schermo non si arrenderà all’idea di poter essere il fratello minore del cinema, ma ritroverà allo stesso tempo lo spirito delle origini. Quello che la tv lineare non ha mai smarrito del tutto. E che le piattaforme di streaming ritroveranno tra le note di una rivoluzione che ha il sapore della restaurazione ibrida.
Preparatevi, allora: The Pitt è solo l’inizio. E non solo per la HBO.
Antonio Casu







