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E così è finita. Dopo anni di sofferenza, fughe disperate, torture psicologiche e sguardi che dicevano tutto e niente, The Handmaid’s Tale, ora su Tim Vision, ha chiuso la sua parabola. L’abbiamo seguita con devozione, con rabbia, con speranza, e ora che tutto si è concluso ci troviamo davanti a un pensiero che non possiamo ignorare: bella, sì, ma non bellissima. Non è un disastro, intendiamoci. Non stiamo parlando di un finale alla Game of Thrones, di quelli che ti fanno maledire anni di fedeltà televisiva. The Handmaid’s Tale non ha sbagliato il colpo finale. Semplicemente, non ha colpito abbastanza forte. La serie di Bruce Miller si portava dietro un’eredità pesantissima.
Le prime stagioni erano state un fulmine a ciel sereno. Così potenti, disturbanti (ecco le serie tv più disturbanti), visivamente straordinarie. The Handmaid’s Tale non era solo una serie, era un manifesto, un pugno nello stomaco, un simbolo culturale diventato immediatamente riconoscibile. Bastava un mantello rosso e una cuffia bianca per capire tutto. Ma quando parti così in alto, ogni passo successivo è un rischio e, con il passare degli anni, quella forza viscerale si è affievolita. Non perché la serie sia diventata brutta, ma perché ha perso quella fame, quella rabbia e quell’urgenza che la rendevano viva. L’ultima stagione, pur chiudendo il cerchio in modo coerente, non ha ritrovato quella scintilla. Non ci ha fatto tremare le mani sul telecomando, non ci ha fatto gridare al miracolo. È scivolata via, tiepida.

The Handmaid’s Tale ha difeso un suo pregio
Fino alla fine la serie non ha tradito i suoi personaggi. Il percorso di June Osborne è rimasto coerente, la sua evoluzione credibile, e l’interpretazione di Elisabeth Moss, ancora una volta da manuale. Il finale (qui i migliori finali delle serie) funziona. È coerente, tocca le corde giuste, chiude senza forzare. Eppure manca qualcosa. Non c’è quella tensione, quella sensazione di “oddio, cosa sta per succedere” che aveva reso grande la serie. Le ultime puntate si guardano senza mai saltare sulla sedia, senza mai trattenere il fiato. Non è un difetto di scrittura, ma di ritmo, energia, cuore.
L’impressione è che la storia, arrivata alla fine, sia entrata in modalità pilota automatico. Tutto fila, nulla stona, ma non emoziona davvero. È come guardare un concerto perfettamente eseguito… Solo che il cantante sembra un po’ stanco. Ogni episodio di The Handmaid’s Tale aveva i suoi momenti. La prima puntata, con la fuga di June e dei bambini, prometteva adrenalina, ma finiva per essere più un momento di tensione calma che un colpo di scena. Ci si aspettava sangue e coraggio da capogiro, invece la scena puntava sul riassunto emotivo, e non sorprendeva davvero.
La discesa prosegue nelle puntate successive
La seconda puntata, di fatto, ci mostrava il confronto tra Serena e June, due donne che conoscono troppo bene il dolore l’una dell’altra. Ottimo dal punto di vista psicologico, ma manca il pathos collettivo: Gilead appare quasi vuota, più teatro di introspezione che di resistenza attiva. La terza puntata avrebbe potuto regalarci un colpo di scena legato a un tradimento interno al comando di Gilead, ma lo shock è diluito, quasi pedagogico.
La quarta puntata offre la scena più intensa dell’ultima stagione, quando June affronta finalmente il suo ex-carceriere. Certamente ottima per tensione e recitazione, ma dura troppo poco e viene subito sostituita da momenti riflessivi che smorzano la carica emotiva. L’ultima puntata chiude in modo coerente e commovente, ma manca l’epicità, la sensazione che ogni dolore accumulato trovi una vera liberazione. È più una carezza malinconica che un pugno nello stomaco.

Manca il tipico picco emotivo degli eventi
Il divario tra ciò che ci aspettavamo da The Handmaid’s Tale e ciò che abbiamo avuto, pesa come un macigno. Dopo la penultima stagione, ci si aspettava una resa dei conti, un’esplosione climatica, qualcosa che facesse tremare le fondamenta di Gilead. Tutto lasciava pensare a un ultimo atto epico. Invece, il finale si è rivelato più intimo, più personale, quasi contemplativo. June e Serena si ritrovano due facce della stessa medaglia, due donne spezzate dal sistema, e in questo c’è della poesia. Ma quella poesia, pur bella, non basta a farci dimenticare il brivido che ci aveva accompagnato agli inizi. Forse Miller ha voluto fare un passo indietro, chiudere in modo umano, non spettacolare. E va bene. Ma diciamolo, dopo anni di sofferenza, volevamo una liberazione che facesse tremare i muri, non una carezza malinconica.
Chi ha amato il romanzo di Margaret Atwood sa che la storia originale si concentrava su June come testimone, su un mondo chiuso e claustrofobico, in cui la speranza era fragile e incerta. La serie ha allargato il perimetro di Gilead, ha creato nuovi personaggi, ha aggiunto fughe, ribellioni e colpi di scena che il libro non prevedeva. Questa libertà narrativa, da un lato, ha reso la serie più spettacolare e televisivamente avvincente. Dall’altro, ha disperso l’intensità concentrata del romanzo. L’ultima stagione, in particolare, si è allontanata dal focus intimo della Atwood, privilegiando l’emotività dei singoli personaggi a scapito della rabbia collettiva. In pratica, la serie ha smussato gli angoli, addolcendo un finale che nel libro avrebbe potuto essere più crudele e destabilizzante. Una scelta narrativa comprensibile, ma che lascia una punta di rammarico negli spettatori più legati all’opera originale.
L’impatto culturale di The Handmaid’s Tale resta enorme
Va detto che June Osborne non è solo un personaggio di fiction, ma è diventata un’icona della resistenza, un simbolo femminista riconoscibile ovunque. II suoi stessi indumenti sono segni di un dibattito, strumenti di attivismo, immagini che hanno invaso Instagram, manifestazioni e campagne social. La serie ha cambiato il modo in cui raccontiamo il corpo, il potere e l’oppressione. Ha ispirato conferenze, articoli, persino corsi universitari. E questo, davvero, è un lascito che supera di gran lunga la qualità di una singola stagione. Alla fine, quello che resta è un senso di rispetto, ma non di entusiasmo.
Non c’è delusione, ma nemmeno quella commozione (qui le scene commoventi delle serie) profonda che un finale perfetto dovrebbe suscitare. The Handmaid’s Tale chiude la porta con grazia, ma senza far rumore. E sì, si poteva fare di più. Si poteva rischiare, ci si poteva sporcare le mani, si poteva cercare un’emozione più vera. Invece è come se la serie, arrivata a destinazione, si fosse seduta, tirando un sospiro di sollievo. Un sollievo comprensibile, ma non contagioso. Dunque, forse non ci ha regalato l’ultima stagione che credevamo. Ma ci ha dato un linguaggio, una memoria collettiva, un’estetica della resistenza. E in un mondo in cui tutto passa in fretta, questo non è poco. Solo che, diciamolo, un po’ di quel vecchio furore ci manca.







