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È tornata The Gilded Age – Recensione della seconda stagione dell’ambizioso period drama

ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler sulla seconda stagione di The Gilded Age.

È tornata New York con le sue carrozze e i vestiti sgargianti. Sono tornati gli aristocratici della Sessantaduesima strada, le loro occasioni mondane, gli abiti colorati, le loro buone maniere, gli inchini, la servitù, la falsa modestia e l’ambizione smodata. È tornata l’età d’oro della fine del XIX secolo, così sgargiante, così accesa, così snob. Sono tornati gli stravolgimenti sociali e le guerre per i palchetti nel Teatro dell’Opera. È tornato Julian Fellowes, il maestro dei drammi in costume, che si è messo ancora una volta a dirigere l’orchestra dettando i tempi scenici e armonizzando i reparti. E The Gilded Age è proprio un’enorme filarmonica di strumenti perfettamente sincronizzati, armoniosi, melodici. Il creatore di Downton Abbey, dopo The English Game e Belgravia, è tornato a confezionare un altro dramma storico per la tv. The Gilded Age, come si può intuire dal titolo, è un period drama ambientato durante l’età dell’oro degli Stati Uniti, ossia negli ultimi decenni dell’Ottocento, un periodo di grandi stravolgimenti sociali e cambiamenti epocali. Al centro delle vicende ci sono alcune famiglie della New York dell’epoca, costantemente impegnate in eventi mondani in cui l’etichetta e il prestigio sociale diventano un marchio identificativo. Rispetto ai suoi lavori più celebri, Fellowes ha scelto di ambientare questo nuovo dramma in costume non nell’Inghilterra tradizionalista e conservatrice alla quale ci aveva abituati, ma nel Nuovo Mondo, oltreoceano, in una società molto più dinamica e in continua evoluzione.

the gilded age

La prima stagione di The Gilded Age è stata un successo.

I nove episodi con cui si è presentata al pubblico sono stati ben accolti, sia dagli appassionati del genere che dalla critica. Avevamo subito chiarito che il confronto con Downton Abbey sarebbe stato un azzardo. Paragonare le due serie significa non averle capite per niente. Con The Gilded Age Julian Fellowes trasloca dall’altra parte del mondo, in una New York chiassosa e ben educata, il set perfetto per un mondo dinamico e in metamorfosi costante, nel quale emergono poco alla volta contraddizioni agghiaccianti e paradossi inspiegabili. Nella prima stagione, abbiamo conosciuto i protagonisti di questo dramma: da una parte la famiglia van Rhijn, con l’aristocratica Agnes (Christine Baranski) pronta a bacchettare tutti per mettere al riparo il buon nome della famiglia e mantenere il posto di prestigio nell’alta società newyorchese. Dall’altra, la famiglia Russell, a rappresentare la borghesia emergente che pianta radici in città e si fa largo in società grazie alle nuove opportunità offerte dall’era del progresso. Tradizione contro innovazione, dunque. E, per sintetizzare ancora, vecchio che rimane anchilosato alle proprie usanze contro nuovo che avanza. Conservatorismo contro progressismo. Comunque la si intenda, quello a cui assistiamo è la contrapposizione tra diverse facce di un’unica, scintillante medaglia: quella dell’alta società newyorchese. I personaggi che orbitano attorno a quest’asse sono esponenti pescati a caso dall’aristocratico mondo degli ereditieri e dei possidenti terrieri o dei nuovi imprenditori che investono nelle tecnologie del futuro. Accanto a loro, appena un “piano” più giù, ci sono i personaggi al servizio dei ricchi: maggiordomi, dame di compagnia, camerieri, che si affacciano dietro le quinte e si occupano di mantenere sempre sfavillante l’immagine pubblica delle famiglie per le quali lavorano.

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Nei primi episodi della serie, abbiamo visto come due diversi modi di vedere la realtà – e due diversi background sociali – possano portare a scontri inevitabili. Scontri che si consumano tutti sul filo dell’argenteria, in una gara di sfoggio combattuta senza esclusione di colpi, da una parte come dall’altra. La seconda stagione di The Gilded Age fa un notevole passo in avanti. Le storyline dei singoli personaggi sono più interessanti e coinvolgenti. Sappiamo già con chi abbiamo a che fare e, se la prima stagione si era preoccupata di presentarci tutti i protagonisti di questo period drama, la seconda può saltare i convenevoli e spingersi oltre, approfondendo delle linee narrative che erano state solo abbozzate in precedenza. L’attenzione può focalizzarsi quindi sulla battaglia personale di Bertha Russell (Carrie Coon), determinata a spendere le sue fortune per aggiudicarsi i palchetti nel nuovo Teatro dell’Opera. Ma anche sulla vita sentimentale di Marian Brook (Louisa Jacobson, la figlia di Maryl Streep), sulle disavventure e sugli azzardi del giovane cugino Oscar van Rhijn (Blake Ritson), sul percorso di crescita di Peggy Scott (Denée Benton), che diventa una giornalista impegnata a difendere i diritti sociali della minoranza di colore, sulle intemperanze dei figli Russell, ciascuno ansioso di metter piede nel mondo, e così via. Anche i membri della servitù riescono a ricavarsi più spazio all’interno della seconda stagione di The Gilded Age. La guerra tra le famiglie di appartenenza diventa anche una guerra tra i membri dello staff al loro servizio, pronti a dare tutto per contribuire alla buona riuscita degli eventi mondani, delle cene di gala, dei balli e delle feste.

Qualche colpo di scena e una sceneggiatura maggiormente centrata sul “piano di sotto” ci restituiscono un quadro complessivo molto più ampio e variegato di quello della prima stagione.

Sono anche i riferimenti al contesto storico a dare una spinta in più a The Gilded Age. Dopotutto, la serie è intitolata all’età dorata degli Stati Uniti di fine Ottocento, per cui il contesto meritava un approfondimento in più rispetto al ruolo sfocato che aveva assunto nel corso della prima stagione. Vediamo così il robben baron Mr. Russell (Morgan Spector) dover fare i conti con gli scioperi dei lavoratori che si riuniscono in un sindacato per reclamare i propri diritti e che scandiscono nelle proteste il grido otto! otto! otto!, facendo riferimento alle battaglie della classe operaia per la riduzione dell’orario di lavoro. Si parla di lavoro, progresso, sfruttamento, disuguaglianze sociali. Tutta la storyline di Peggy Scott è incentrata sulle rivendicazioni delle minoranze afroamericane e sulla disparità di trattamento tra Nord e Sud degli Stati Uniti. Ma ci sono anche i riferimenti al sistema scolastico newyorchese, al diritto all’istruzione come bene universale e non elitario, alle opere di ingegneria urbana come il Ponte di Brooklyn, che veniva realizzato proprio in quegli anni, o alle piccole invenzioni come quella della sveglia. Insomma, il mondo di The Gilded Age è un mondo in subbuglio e la serie si piazza in una posizione privilegiata per assistere e raccontare quel subbuglio.

Ciò che Julian Fellowes sa fare meglio, dopotutto, è raccontare il cambiamento attraverso storie semplici e senza pretese.

Nella seconda stagione di The Gilded Age, uno dei filoni narrativi più intensi riguarda il personaggio di Ada, che da comprimario diventa protagonista, con tanto di plot twist finale. L’arrivo del pastore Luke Forte (Robert Sean Leonard) è un evento destinato a stravolgerle la vita, donandole una breve ma intensa parentesi di felicità in un’esistenza totalmente votata alla famiglia. E tra le new entry della nuova stagione c’è anche Mr. Dashiell Montgomery (David Furr), un nipote dei van Rhijn che si trasferisce in città insieme a sua figlia e si infatua di Miss Brook. L’amore è, come da copione, uno dei temi centrali di The Gilded Age. Si tratta di un amore gentile, stilnovista, da romanzo di Jane Austin. Le ragazze si illudono di poter trovare l’anima gemella, mentre gli adulti badano a logiche di convenienza sociale, mettendo in secondo piano i sentimenti. È un amore che qualche volta fa soffrire, ma che tutto sommato vale la pena viversi. Julian Fellowes racconta con molta raffinatezza i sentimenti umani, rendendoli parte dello spettacolo che si premura di allestire per il pubblico: un concerto con l’orchestra sfavillante e un coro perfettamente intonato a dare voce all’anima del dramma. Fellowes dirige con la bacchetta in mano, mentre tutto attorno a lui prende vita, come per magia. L’elemento scenografico è l’assoluto punto di forza di The Gilded Age. Ricostruire le ambientazioni della New York di fine Ottocento ha richiesto alla troupe un lavoro certosino, che la regia ha saputo esaltare, esattamente come nella prima stagione. Considerando gli sviluppi dell’ultimo episodio, immaginiamo che ci sarà presto anche una terza stagione di The Gilded Age. Che no, non è Downton Abbey, ma non vale la pena ricordarglielo.