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Il Muro del Rimpianto – The Following: una sontuosa idea sprecata in nome delle americanate

Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.

L’inquietante e ammaliante musica di Sweet Dreams di Marylin Manson in sottofondo. Due uomini che si guardano, si odiano e un po’ sinistramente, sotto sotto, si amano anche. Una connessione straordinaria tra l’eroe e il villain, coi due ruoli che tendono ad allinearsi più che confondersi: perchè Joe Carroll non sarà mai un eroe, ma Ryan Hardy a un villain, a tratti, ci si avvicina eccome. E poi una metanarrazione, una storia dentro la storia, in cui Joe spiega al suo amato nemico Ryan che il libro che ha in mente ha già cominciato a scriversi da solo. Dentro la realtà. La prima puntata di The Following ha una delle chiose più narrativamente attraenti di sempre, e sembra creare i presupposti per una serie televisiva potenzialmente memorabile. Non è un caso che in America la prima stagione fece registrare ascolti altissimi, non è un caso che anche in Italia fu una delle serie più reclamizzate in assoluto tra il 2013 e il 2014: ci trovavamo la pubblicità delle puntate di The Following finanche in mezzo alle partite di Champions League. Insomma, tutto sembrava suggerire che forse, forse, potessimo essere davanti a un autentico capolavoro.

Le basi in effetti c’erano tutte. Perchè la trama di The Following mischiava in maniera avveneristica elementi di novità con elementi più classici: il serial killer Joe Carroll si era servito dei social media per alimentare una rete di followers del suo culto di omicidi seriali, omicidi ispirati ai romanzi di Edgar Allan Poe. Internet e letteratura, evoluzione e tradizione diventavano alleati, colonne portanti di una setta di serial killer tanto affascinante quanto terrificante. In un periodo, poi, in cui il concetto di followers non era ancora così sdoganato e ossessivamente dominante come è oggi: provate a pensare al concept di The Following prodotto e distribuito su una serie nata nel 2021 e immaginate che risultati avrebbe potuto ottenere.

The Following
The Following

Cominciamo col dire che The Following era semplicemente un’idea sontuosa, a prescindere dal modo assolutamente rivedibile in cui è stata poi sviluppata. Tutto cominciava con l’evasione del temibile Joe Carroll dalla prigione in cui era rinchiuso – aiutato dai suoi followers, infiltrati fin dentro la rete penitenziaria – e la successiva nuova chiamata in servizio di Ryan Hardy, detective che lo aveva catturato anni prima, prima di finire in congedo permanente per via della sua parziale invalidità: Ryan ha infatti un pacemaker che lo tiene in vita, dopo che durante la cattura Carroll per tentare di sfuggirgli lo pugnalò al cuore. Carroll evade per concludere la sua opera: uccidere Sarah Fuller, l’ultima di 15 studentesse trucidate da Joe a suo tempo. Ma Ryan spiega a tutto l’FBI che non si tratta soltanto di un pazzo omicida che uccide in maniera furente e incontrollata. Joe Carroll è molto di più: un serial killer che crea altri serial killer, radunandoli sotto l’arco di una setta che pensa di essere una setta di artisti, più che una setta di omicidi.

“Lui non ha soltanto trucidato 14 studentesse. Stava facendo arte”

hannibal, the following
The Following

Joe è un uomo estremamente affascinante. Distinto, educato, all’apparenza gentile, molto acculturato, carismatico in maniera disarmante: in poche parole, ammaliante. E riesce ad ammaliare anche lo stesso Ryan Hardy, che diventa suo amico: mentre cerca il killer delle studentesse Ryan finisce nella tana del Lupo, a casa del professor Carroll. A brindare con l’uomo a cui sta dando la caccia, senza esserne consapevole. Perchè Joe è così: sa accoglierti. Si interessa alle sorti di chiunque gli stia accanto, pur mantendo un certo distacco sembra anche provare empatia, ma è tutta una macchinazione. Una macchinazione di cui Hardy finisce vittima, salvo poi rendersi conto a posteriori del mostro che aveva di fronte. Giusto in tempo per salvare una delle 15 studentesse ma non in tempo per salvare se stesso, ormai devastato dalla conoscenza di Carroll. Devastato, ma anche in parte contagiato.

Perchè è proprio sul dualismo al retrogusto di sinistra connessione tra protagonista e antagonista che si impernia The Following: Joe Carroll odia Ryan Hardy perchè lo ha catturato, e perchè gli ha rubato sua moglie. Vuole vederlo soffrire, vuole privarlo di ogni cosa, ma allo stesso tempo ne è in qualche modo dipendente. Dipendente dalla sua considerazione, dalla sua stima, dal suo giudizio. Joe potrebbe far uccidere Ryan Hardy in qualsiasi istante ma ordina sempre ai suoi followers di non torcergli un capello: ufficialmente è perchè vuole farlo soffrire fino al punto di farlo uccidere da solo, in realtà c’è molto altro. C’è una stima infinita verso l’unico uomo che è riuscito a metterlo in scacco, e anche un malcelato e quasi incomprensibile affetto. Quel che è ancor più incomprensibile è che Joe Carroll è assolutamente ricambiato, in un puzzle di non detti tra i due personaggi principali che solo nella terza stagione troveranno una risoluzione più chiara e concreta.

Joe Carroll scrisse un libro che fu un flop e vuole riprendersi la scena con un secondo libro. Per farlo, sceglie Ryan Hardy come protagonista: un eroe imperfetto che assomiglia a un anti-eroe. Problematico, fosco, mosso da buone intenzioni spesso macchiate dalla sua assenza di autocontrollo. E l’idea messa in scena dagli autori di The Following è geniale: quello di Carroll è un libro che viene scritto dentro la realtà, con personaggi veri e capitoli che vengono prima scritti e poi tradotti in eventi veri e propri da Joe, che come una sorta di Dio crudele sposta i suoi followers come pedine per far accadere ciò che ha scritto e mettere Ryan continuamente alle corde, costringendolo ad atti eroici che ne minano la sanità mentale e contribuiscono alla stesura di quello che Carroll ritiene poter essere il suo capolavoro. Ne esce, in termini di serie tv, un thriller psicologico a tratti terrorizzante ma estremamente accattivante, rafforzato da colpi di scena continui e puntualissimi cliffhanger impeccabili a fine puntata nella prima stagione, con una meccanismo narrativo chiaramente ispirato a Lost, a cui The Following si ispira anche nell’assenza di sigla con la sola presenza del logo The Following scritto su uno schermo nero a ogni inizio e fine puntata.

Non solo: The Following in tutto ciò riesce a risultare assolutamente credibile anche nella rappresentazione espressiva dei serial killer psicopatici, da Joe ai suoi accoliti: freddi, spesso colorati da un inquietante sorriso e da espressioni che non tradiscono alcun tipo di umana emozione, gli sguardi di Carroll e – soprattutto – dei suoi followers sono sinistri e angoscianti. Ti danno l’impressione di poter commettere atrocità da un secondo all’altro pur nella loro totale calma apparente, riuscendo a incutere davvero una sensazione di paura nel telespettatore.

Ma quindi, con tutto questo ben di Dio a disposizione, come ha fatto The Following a finire ormai addirittura nel dimenticatoio? Come ha fatto una serie dal potenziale così smisurato a morire ripiegandosi su se stessa, addirittura cancellata alla fine della terza stagione senza un vero finale? I rimpianti sono ampi e numerosi. Innanzitutto gli autori non hanno saputo accontentarsi del piatto già ricchissimo che ci avevano messo a disposizione: già nella prima stagione, di gran lunga la più riuscita delle tre, The Following si lasciava andare a troppi momenti di violenza gratuita ed eccessiva che finivano quasi col disperdere la tensione accumulata durante la narrazione incalzante. Chiariamo: per il tipo di serie in questione che ci fosse un po’ di violenza era prevedibile e in qualche modo coerente, dato che si parlava di serial killer psicopatici e non di allegri coinquilini che dividono spesa e partite di football viste sul divano. Ma il troppo stroppia sempre, e The Following dopo poche puntate si è messa ad esagerare. Sparatorie in ogni dove, liti furiose, schiaffi volanti, momenti trash degni della peggior puntata de La Casa de Papel, Ryan Hardy che presentato come menomato dai suoi problemi al cuore si è poi trasformato in un Superman invincibile e inscalfibile. Fosse stato solo questo, comunque, sarebbe stato qualcosa di tendenzialmente sostenibile: tappandosi gli occhi qua e là, la prima stagione rimane promossissima.

Peccato però che The Following abbia voluto poi esagerare anche durante alcuni momenti cruciali della trama: il finale della prima stagione è intrigante ma tocca importanti vette di surrealtà con la resurrezione di Joe Carroll. Potevano salvarlo, anzi dovevano salvarlo perchè la serie senza di lui avrebbe perso il 70% della sua potenza, ma non così. Non in quel modo ridicolo.

Infine, la seconda e soprattutto terza stagione. Gli autori di The Following si sono resi conto di aver esagerato anche con la strage di personaggi nel primo capitolo: Debra Parker tra i buoni e Paul, Jacob e soprattutto Roderick tra i cattivi erano personaggi interessanti e ben caratterizzati, farli fuori tutti insieme non ha giovato a una serie comunque ancora giovane che ha provato disperatamente a correre ai ripari. Ma i nuovi psicopatici e le nuove sette costruite da Joe hanno finito col sembrare delle brutte copie dei loro predecessori, togliendo quel senso di inquietudine caratteristico della prima fortunata versione della serie. L’ultima stagione in particolare, con l’ingresso di Theo come nuovo villain principale, è sembrata veramente una versione triste e debilitata della prima The Following, spogliata ormai totalmente di quell’affascinante idea di crime thriller letterario che ci aveva avvolti e travolti agli esordi. Il solo approfondimento ulteriore del rapporto Joe-Ryan, ormai pressochè alla stregua di alleati, non è bastato a salvare The Following dall’inevitabile cancellazione.

La serie, di fatto, è morta con Joe e a noi rimane in eredità un rammarico grosso come una casa. Perchè The Following aveva tutto per spiccare e spaccare, ma si è persa nei meandri di se stessa rimanendo vittima della confusione narrativa di chi vuole strafare. Poche serie possono vantare un potenziale così smisurato e variegato, ma la troppa carne al fuoco ha finito col creare un incendio incontrollabile: incendio al quale Joe Carroll – comunque e nonostante tutto, uno dei migliori villain mai scritti e interpretati nella storia delle serie tv – è scampato nella prima stagione, ma a cui The Following, due capitoli dopo, non è riuscita a sopravvivere. Morendo in modo triste e dimesso, quasi senza che nessuno se ne accorgesse. Senza poesia.

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