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La qualità paga (ancora): un’analisi in 7 punti del successo fragoroso di Shōgun, la miniserie dell’anno

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Shōgun.

Non l’avevamo vista arrivare, almeno in Italia. Ed è normale stupirsi ora per quello che è diventata in pochissimo tempo. Puntata dopo puntata, nell’arco di una manciata di settimane. Shōgun, maestosa miniserie targata Hulu e FX, è un esempio plastico di cosa possa essere un “instant cult”: un fenomeno dirompente che fa la storia mentre la sta scrivendo.

Niente di più difficile, in questo periodo storico. L’avvento dello streaming ha saturato il mercato e riempito le offerte con un’infinità di titoli, diradando l’impatto di ognuna in nome di un consumismo seriale sempre più affine alla filosofia dei fast food che a quella dei ristoranti gourmet. Lo slow food, tuttavia, sembra poter trovare ancora spazio in questa fase storica, e se possibile trovarne più di quanto ne abbia trovato negli ultimi anni. La qualità, allora, paga ancora. Eccome se paga. La golden age è finita da tempo, ma le serie tv sono diventate quello che sono diventate negli ultimi venticinque anni per motivazioni valide pure oggi.

Ne parleremo meglio, nell’arco dell’articolo che segue. Perché il successo mondiale di Shōgun, arrivato al capolinea nei giorni scorsi dopo dieci straordinari episodi (questa la nostra recensione finale), merita di essere analizzato e compreso a fondo. Lo merita l’incredibile lavoro fatto in sede di produzione, ed è necessario anche per comprendere meglio la direzione che intraprenderà il mondo delle serie tv nei prossimi anni.

Shōgun è per pochi e per tutti

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In fondo è uno dei principi chiave del mercato, e Shōgun centra perfettamente l’obiettivo. Ha creato un prodotto esclusivo, curato nei minimi dettagli e capace di dare profondità a dialoghi, personaggi, situazioni e contesti, senza rinunciare per questo a una trasversalità che le permette di essere, allo stesso tempo, per pochi e per tutti. Per chi cerca un prodotto di qualità dal sapore cinematografico un po’ d’essai, ma anche per chi necessita di godersi uno spettacolo unico senza mai sentirsi in difetto rispetto alla narrazione.

Il risultato è complesso da ottenere e molto spesso i compromessi necessari finiscono per svilire le ambizioni artistico-creative delle produzioni, ma Shōgun è stata capace di catapultarci in un mondo distante dal nostro senza rinunciare alle sue complesse sfumature, traducendolo con linguaggi universali che tengono fede allo spirito del materiale originario e dell’universo nel quale si chiede di immergersi.

Il risultato? Una miniserie che disvela coraggiosamente le sue peculiarità, portandoci dentro dinamiche ignote al grande pubblico col carisma di chi accompagna un corpo emotivo in grado di abbattere ogni frontiera.

Il romanzo è un cult e così anche la miniserie del 1980, meno conosciuta in Italia

C’è un fattore che spiega perché la serie tv fosse tanto attesa negli Stati Uniti e fosse passata un po’ sottotraccia in Italia. Mentre da noi le opere dalle quali è derivata, il romanzo di James Clavell del 1975 e la miniserie del 1980, non sono granché conosciuti dalle generazioni più giovani, negli States rappresentano due grandi cult dell’ultimo quarantennio. Il romanzo ha contribuito significativamente alla diffusione della cultura nipponica nella sfera occidentale in una fase storica complessa. La miniserie ebbe a sua volta un successo clamoroso, persino associabile a quello che sta ottenendo l’erede in queste settimane.

Per questi motivi e molti altri, Shōgun era attesissima negli Stati Uniti. E aveva perciò una responsabilità ancora più grande: assecondare con personalità le importanti premesse, offrendo un adattamento contemporaneo credibile a un’opera che ha segnato un’epoca. Un’opera che necessitava fisiologicamente di un aggiornamento al passo coi tempi, realizzata con grande rispetto del materiale originario.

Secondo Judy Berman, autore del Time, si è andati oltre “la prospettiva dell’outsider occidentale per esaminare una società fratturata che è sconcertata dai modi dell’intruso quanto lui è disorientato dai loro“. Già.

Offre uno spaccato credibile sulla cultura giapponese

L’obiettivo di tanti, il risultato di pochi. Parlare del Giappone e della sua cultura millenaria attraverso una voce occidentale può essere a dir poco complesso, e non è raro ritrovarsi ad avere a che fare con una visione tanto miope da snaturarne la ragion d’essere. Potremmo fare tanti esempi in questo senso, ma Shōgun ha saputo regalarci una prospettiva lucida e illuminante su una cultura attrattiva e suggestiva, rispettosa e credibile in gran parte dei suoi aspetti. Sia per chi la scopre così per la prima volta attraverso gli occhi dell’anjin che per chi invece la conosce e ne è davvero appassionato. Per i secondi, è appagante non scadere nelle stereotipizzazioni e nelle criticità in cui spesso ci si imbatte in questi casi.

Daniel Fienberg, autore dell’Hollywood Reporter, ha scritto: “Shōgun onora ciò che ha contribuito a diffonderlo tra generazioni precedenti, portando in superficie una sensibilità più moderna per un pubblico del XXI secolo”. Niente di più vero.

La narrazione si ripropone di offrire una prospettiva obiettiva ed equidistante nel gestire il melting pot che si disvela all’interno di una società dalle regole molto chiare, illustrate senza stucchevoli didascalismi né spocchiosi pregiudizi. La percezione dell’anjin, centrale e pressoché unica nello sceneggiato degli anni Ottanta, diventa uno dei molteplici point of view del nuovo adattamento. Un’esperienza immersiva ed esaustiva che abbatte le frontiere socioculturali e ci permette di vivere l’avventura nella sua interezza: non osserviamo più il Giappone del Seicento con la sola visione dello straniero, bensì con quella dei protagonisti nella loro totalità.

Il modello settimanale

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Ne avevamo parlato un mese fa e ribadiamo un concetto che potrà non piacere a tutti: il modello settimanale, per alcuni vetusto e ormai superato, ha ancora una validità imprescindibile.

Lo certifica il successo di Shōgun. La serie, infatti, ha tratto notevoli vantaggi dalla distribuzione, permettendo al pubblico di avere il tempo per vivere un’esperienza sempre più collettiva. Un’esperienza, lenta, che ha dato la giusta luce alle complessità della narrazione e ha offerto uno spazio che altrimenti sarebbe stato difficile avere. Se poi si unisce questo fatto alla pochezza di serie in circolazione, ancora limitate dalla crisi in atto, si permette a un’opera come questa di avere il giusto apporto mediatico e dar modo al pubblico di arrivare a meta anche attraverso il passaparola.

Shōgun è cresciuta settimana dopo settimana, arrivando a ottenere dei risultati che con ogni probabilità non avrebbe ottenuto in altre fasi dell’era dello streaming.

Per tutti gli altri, l’occasione non è perduta: la modalità di rilascio non impedisce a nessuno di recuperare la serie in blocco ora, dopo la sua conclusione.

Il fascino magnetico del personaggio di Mariko

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Toda Mariko è, indubbiamente, uno dei migliori personaggi femminili delle serie tv degli ultimi dieci anni. Un personaggio sfaccettato e carismatico, dinamico e piuttosto imprevedibile, dotato di una personalità che la porta ad abbracciare mondi e culture distanti col cuore e la mente di un soggetto ricco di fascino. L’interpretazione da Emmy di Anna Sawai – l’ennesima di un cast che si è superato nell’offrire tridimensionalità a caratteri intrisi di luci e ombre contemporanee – ci ha restituito una Mariko diversa dal passato, ideale per la serialità odierna e ricalcata sulle linee guida della donna descritta da Clavell.

Una donna adattata coerentemente alla nostra sensibilità, senza mai scadere nel vetusto cliché della “donzella che si deve far salvare dall’eroe bianco”. Meno male.

Nobile, cristiana, giapponese, aggrappata al proprio onore e alla propria fede più di quanto abbia fatto con la propria vita. Il suo sacrificio ha segnato a fondo le emozioni provate nel corso della stagione, e rappresenta il punto d’arrivo di un personaggio che è stato, prima di tutto, cittadina di un mondo in cui le differenze si rispettano e si superano. Il suo magnetismo ha contribuito significativamente al successo della serie, e non poteva essere altrimenti.

È il momento delle miniserie

In questo momento il formato è considerato rassicurante dal pubblico: non porta ad attese infinite tra una stagione e l’altra, e abbatte il rischio che si possa rovinare tutto nel corso del tempo. Il resto lo fa Shōgun, abile nello sfruttare le peculiarità del formato e nel creare qualche rimpianto in chi avrebbe voluto più di una stagione. La trama è veloce e densa di eventi, ma non rinuncia a dialoghi ficcanti e a una gestione dei tempi oculata che sa rallentare nei momenti chiave senza generare noia.

Non ci sono mai momenti morti dall’inizio alla fine, anche quando la narrazione sembra adagiarsi su apparenti fasi statiche di transizione. Fasi che spesso non trovano l’apprezzamento del grande pubblico, ma rappresentano un passaggio chiave di costruzione narrativa, definizione emotiva e approfondimento globale. Una grande serie tv si scrive in questo modo, e. chi non ha apprezzato le ultime stagioni di Game of Thrones lo sa bene.

Solo così si vivono i passaggi più importanti degli ultimi due episodi con l’intensità con cui li abbiamo vissuti. I personaggi sono divenuti parti di noi e del nostro vissuto grazie a un ponte eretto con cura nel corso delle dieci puntate.

Andare veloci, andando lenti: Shōgun è riuscita anche in questo, e scusate se è poco.

Il sangue è un motore narrativo di Shōgun, non il punto d’arrivo

Un period drama solido, dalla ricostruzione meticolosa di ambientazioni, gesti e situazioni. Un’opera completa, mai didascalica. Si punta al cuore dei personaggi e delle dinamiche, più che alla spettacolarizzazione delle stesse. L’utilizzo della violenza e delle grandi battaglie sono motori narrativi che non ne rappresentano il fulcro centrale né il punto d’arrivo. La trama, allo stesso tempo, è dinamica, efficace, combina l’umorismo col dramma profondo e accontenta il pubblico più esigente.

La miniserie è il traguardo di un lungo percorso avviato ormai sei anni fa, e di uno sforzo produttivo mastodontico che ci ha restituito un prodotto solido e maturo. Un prodotto capace di sfruttare i fattori chiave del kolossal in nome della scrittura, valorizzata da un’estetica che implementa l’impalcatura narrativa con premesse ideali e finalità ben chiare. Da qui il finale, meno spettacolare di quanto potesse aspettarsi il pubblico più disattento: un epilogo, tuttavia, coerente con quello che avevamo visto fin dalla primissima puntata. Si passa così attraverso la cura maniacale di ogni dettaglio e si porta a casa un titolo dal respiro artigianale, sempre meno abituale nella serialità odierna.

Una cura elogiata dalla critica, affascinata dall’ortodosso rispetto del mondo raccontato.

Michel Ghanem di The Cut ha per esempio scritto: “La scenografia è stata costruita meticolosamente, dai giardini rocciosi alle migliaia di costumi fatti a mano “. Una recensione di The Hollywood Reporter parla di “un misto di dettagli sensibili e apprezzamento utilitaristico. Tutto sembra vissuto e non solo accattivante per la vista”.

Sottoscriviamo anche le virgole: Shōgun ci ha ricordato perché le serie tv abbiano assunto un ruolo tanto importante nelle nostre vite, e perché abbiano trovato nel tempo una dignità artistica e culturale di tale livello. Per fortuna c’è ancora chi crede nella qualità, e il risultato sotto gli occhi di tutti: questa miniserie ha scritto una pagina importante nella storia recente delle serie tv, ed è destinata a rappresentare il presente e il futuro della televisione. Esageriamo? No. È Shōgun ad aver esagerato, regalandoci un’opera che ricorderemo a lungo.

Antonio Casu