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Come le Serie Tv stanno raccontando l’evoluzione del nostro rapporto col lavoro

Scissione è una serie tv che sta affrontando profondamente il mondo del lavoro
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A proposito del tema nel lavoro nel mondo delle serie tv.

Mentre vi sto scrivendo, è lunedì mattina. Uno spauracchio, ancora più se ci si ritrova immersi nella calura estiva. Un incubo a occhi aperti, per qualcuno. Perché si lavora, e non sempre è semplice farlo. Personalmente mi sento fortunato a riguardo, ma questa un’altra storia. In ogni caso, non serve dilungarsi oltre sul tema: le ansie del lunedì sono ormai parte di una materia letteraria che non troverà la sua massima espressione all’interno di questo articolo. Vale però la pena menzionare il contesto personale per un motivo preciso: stiamo parlando del nostro rapporto col lavoro in una fase di transizione collettiva.

Le crisi economiche costanti, le pandemie e le guerre stanno portando il mondo occidentale – stando stretti, almeno – a ridefinire il suo legame con quello che dovrebbe essere uno degli atti fondativi delle comunità nelle quali viviamo.

Visto che le serie tv si ripropongono, un po’ come qualunque altro mezzo creativo ed espressivo, di raccontare la contemporaneità attraverso un approccio peculiare, stanno dando grande spazio al tema.

Un atto fondativo, si diceva. Uno dei testi più evocativi tra quelli generati nel corso del Novecento, la Costituzione italiana, fa del lavoro un cardine imprescindibile. Fin dall’incipit, giusto per rendere l’idea: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Già, sul lavoro: nelle intenzioni dei padri costituenti, il lavoro viene visto come fondamento della libertà e dell’uguaglianza sociale. Un diritto da tutelare con tutti gli strumenti possibili, benché le aspettative in proposito vengano puntualmente disattese. In ogni caso, la visione del lavoro tende alla positività: un diritto, ma anche un dovere.

Il filosofo Byung-Chul Han ha scritto che nella società della prestazione l’uomo è oggi al tempo stesso padrone e schiavo di se stesso. Si ipotizza la trappola del lavoro come identità: se fallisci, è colpa tua; se non produci, non meriti. Un’ideologia che svuota l’idea di lavoro come responsabilità collettiva — come l’avevano immaginata i costituenti — e lo trasforma in una prova continua, individuale, solitaria.

Abbiamo così una responsabilità civica e personale che ci eleva e ci emancipa, rendendoci indipendenti. Tutto ciò, però, è parte di un’ideale che troppo spesso non trova una corrispondenza nella cronaca delle nostre quotidianità. Il lavoro è foriero di ansie, turbamenti e angosce esistenziali. La presa di coscienza del fatto che il lavoro debba essere solo una parte delle nostre vite e non debba essere un fattore totalizzante, sta cambiando l’approccio globale al tema, soprattutto tra le generazioni più giovani. Dal quiet quitting alla grande fuga (soprattutto, post-pandemia) fino al rifiuto della hustle culture: così direbbero quelli bravi, ma le definizioni più impegnative sintetizzano concetti alla portata di tutti. Le motivazioni si possono ricondurre anche alle aspettative sociali e i divari generazionali tra genitori e figli, ma il tema è troppo complesso per essere affrontato in questa sede.

In ogni caso, si è creato un effetto respingente nei confronti del lavoro. Un peso insostenibile che sfocia sempre più spesso in burnout e alla (doverosa) fuga dalle tossicità di posti di lavoro che non si accettano più aprioristicamente.

La flessibilità è così diventata un elemento ambivalente. Da un lato erode il vecchio mito del “posto fisso”, dall’altro rappresenta una scelta del lavoratore, alla ricerca di opportunità che associno realmente potenzialità e competenze alle condizioni proposte dall’altra parte. Fermiamoci qui: la materia è complessa. È utile, però, sottolineare un aspetto: il mondo delle serie tv è sempre più interessato al tema e sta contribuendo significativamente al suo sviluppo, specie se con declinazioni critiche se non addirittura distopiche.