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Le 7 esperienze più assurde che ho avuto da piccola con i cartoni animati

I cartoni animati, quella inesauribile fonte di avventure, che però nella realtà non erano mai lontanamente avvincenti come quelle che vedevamo in tv. Ma quanto erano belli i cartoni dell’infanzia come Heidi, Holly e Benji o Remi? Che ci hanno lasciato dei ricordi indimenticabili, ma anche tanti di quei traumi che ci porteremo fin nella tomba. Danni psicologici insanabili, come quelli causati da Esadecimale, Skeletor e tutta quella marmaglia di personaggi spaventosi che vivevano in perenne agguato, pronti a trascinarci con loro sotto al letto. Se anche tu sei cresciuto a pane, burro e televisione, i ricordi seriali d’infanzia rappresenteranno sicuramente un morbido rifugio nelle giornate più buie. Ti hanno sicuramente trasmesso tanti insegnamenti preziosi, come quell’insana tendenza all’ipocondria. E scommetto che ti hanno portato a fare tante sciocchezze, come tagliarti da solo i capelli di un caschetto inguardabile per somigliare a Fantaghirò o a impomatarti per sembrare Goku. Ne ho buttato due a caso, ma ho l’impressione di esserci andata vicino. Alza la mano però, se anche tu, conservi ancora oggi nel fondo più profondo dei cassetti chiusi a doppia mandata, quei ricordi non detti, quegli aneddoti assurdi e troppo intimi per essere rivelati. Quelle abitudini che non hai mai confessato per paura di essere portato via dagli omini bianchi di Siamo Fatti Così e venire internato per sempre in un manicomio psichiatrico. So che li hai. Quindi, ora, chiudi gli occhi e fai un respiro profondo. Visualizza le caprette che ti fanno ciao e lasciati trasportare delle note iniziali della sigla di Heidi.

Li vedi? Vengono proprio verso di te. Sono quei ricordi di cui ancora ti vergogni.

Quelle cose folli che facevi in nome dei tuoi cartoni animati preferiti. Perché lo so che quando nessuno ti vedeva, facevi delle cose assurde. Che forse hai rimosso o che non vuoi ricordare. Non ti preoccupare: se il pudore ti blocca, io che della parola pudore non ho mai saputo che farmene, mi immolerò per te. Inizierò per prima questo assurdo viaggio lungo il viale dei ricordi. Il viale non è ovviamente quello illuminato e roseo, quello popolato dai bei ricordi dei bicchieri mozzicati delle feste; quello dalle settimane passate a pianificare il costume di carnevale giusto oppure quello delle ricreazioni che volevo non finissero mai. Parlo dell’altro viale. Quello stretto e scomodo, pieno d’insegne luminose fulminate, con Heidi che mi ossessiona con i suoi maledetti panini e quell’ingrato di Peter Pan che non ha mai trovato la strada di casa mia.

Nessuna paura, nessuna timidezza: abbracciamoci e condividiamo le nostre stranezze infantili, perché in fondo dicono ancora tanto di quello che siamo diventati.

Puffi, non importa come, non importa quando: io vi troverò!

Puffi

Gargamella non era l’unico pazzo a inseguire quegli strambi ometti blu. Li ho cercati per tutta l’infanzia. Sotto ai sassi, tra i cumuli di foglie secche e di erba tagliata. L’erba del prato, sia chiaro. Ho teso loro delle trappole. Ogni volta che mi avvicinavo a un gruppetto di funghi nel bosco, correvo per scovare qualche traccia che mi conducesse al loro pittoresco insediamento urbano. Cristina ci ha dato delle indicazioni inequivocabili: “nel bosco li vedrai”. Sono alti “due mele e poco più”. Una mela quanto sarà alta: 15 centimetri? Pensavo. Quindi come è possibile che un esserino di 30 centimetri sfugga alla mia vista? I Puffi sono un centinaio. Dunque come è puffamente possibile che cento creaturine alte quanto un nano da giardino, con un insediamento articolato come il loro, riescono a nascondersi ancora così bene?

Così i mesi passavano e, con loro, la smania di trovarli si è trasformata in preoccupazione per i brufoli e per gli sbalzi ormonali. Ma non ho ancora smesso di cercarli. Per anni mi sono assicurata che i peluche di Bontina, Puffetta e Grande Puffo, che avevo trovato in regalo in qualche uovo di Pasqua, non si animassero durante la notte. Li coprivo con cura, per evitare che prendessero freddo. Poi la mattina mi svegliavo prima dei miei, per togliere loro la copertina. Intuivo che quel comportamento poteva sembrare (vagamente) sospetto agli occhi di terze parti. Così li osservavo solerte per interminabili ore: prima o poi faranno un passo falso. Dovranno pur sgranchirsi, come fanno in Toy Story!? E invece, quei maledetti Puffi sono stati più furbi di me, di te e di quel pazzo di Gargamella. Che in prospettiva, tanto pazzo non sembra più.

Quegli appetitosi, succulenti, effimeri panini di Heidi

Heidi panini

La fonte della mia ossessione culinaria, che nessuno Zafferano di Navelli o Manzo Wagyu potrà mai eguagliare: quegli stramaledetti, soffici e profumati panini che Heidi scopre a Francoforte. Heidi sapeva che la nonna di Peter li avrebbe apprezzati. Quello che non sapeva è che intere generazioni di bambini, me compresa, sarebbero cresciuti bramando di assaggiarli e spezzarli con le proprie mani. Ti basta googlare “ricetta panini Heidi” per scoprire quante persone ne sono ancora ossessionate. Io ho persino provato a nascondere nel mio armadio una decina di panini all’olio della Mulino Bianco. Ma non hanno preso né l’aspetto né il sapore di quelli della ragazzina montanara. Perché io il loro sapore lo conoscevo bene, pur non avendoli mai assaggiati. Sapevano di colazione della domenica, di pomeriggi senza compiti e della soddisfazione di aver conquistato l’ultima fila sul bus per andare in gita. Ma non erano solo i panini di Heidi a ossessionarmi: c’era il formaggio filante del nonno di Heidi, il pane scuro e il latte spumoso di Bianchina che, a confronto, rendevano insulsa ogni pietanza reale.

Peter Pan, perché non sei mai venuto a prendermi?

Peter Pan

Non riuscendo a trovare l’Isola Che Non C’è in nessuna delle cartine che i miei tenevano al lato dello sportello del passeggero, e non capendo nemmeno quale fosse la seconda stella a destra (ma poi, a destra di cosa?), non restava altra scelta. Se Maometto non va alla montagna, allora Peter Pan doveva venire da me. Non era questo il detto, ma io lo interpretai così. Tenni la finestra aperta per tante, troppe notti. Anche in pieno inverno. I vantaggi di essere figlia unica andavano pur sfruttati in qualche modo: si vive soli e si muore (di freddo) da soli. Le notti passavano, ma di Peter, nemmeno l’ombra. Mi sarebbe bastata quella per provare la sua esistenza, ma niente: lui non mi diede mai alcuna soddisfazione. Posizionai anche dei piccoli oggetti rumorosi sul davanzale della finestra per essere svegliata al suo passaggio. Alla fine, rassegnata, la finestra l’ho chiusa. Ma la tentazione di riaprila per farmi portare via su l’Isola Che Non C’è non è svanita. E non svanirà mai.

Firmato: La principessa Zaffiro

La principessa Zaffiro

Non ho idea di quante persone ricordino questo cartone animato, una serie tv giapponese tratta da un manga e arrivata in Italia con vent’anni di ritardo. Non ricordo molto del cartone in sé, ma ricordo benissimo i suoi effetti su di me. La principessa del regno di Silverland era una tipa tosta. Altro che Cenerentole, scarpette e principesse narcolettiche. Suo padre voleva un maschio, invece si è ritrovato con una femmina. Al di là delle implicazioni culturali, e delle velate interpretazioni misogine, Zaffiro è la prima del suo genere. In sella al suo cavallo, precorre i tempi, ancor prima di Lady Oscar, e ci insegna che “noi femmine” possiamo cavalcare, tirare di scherma, combattere i cattivi e che non dobbiamo mai aver paura. Come ho detto, ricordo poco della trama, ma ogni mio disegno di infanzia era firmato con il suo nome. E a detta dei miei, pretendevo di essere chiamata “La Principessa Zaffiro”, anche dalla maestra.

Baciali tutti, anche l’insetto stercorario

Ape Maia

Ma quanto era simpatica l’ape Maia? Non tanto quanto Heidi, ma era così dolce. E quanto erano teneri e sfortunati i suoi amici insetti? Maia riusciva a fare amicizia con tutti, anche con l’insetto stercorario. Quella buon’anima dello scarabeo stralunato che per tutta la vita spinge una palla di m***a. Che pena e che fatica, la vita. L’ape Maia, con la sua gioia, il suo ottimismo e una bontà d’animo zuccherosa, mi faceva sempre sentire in colpa per aver commesso qualche scaramuccia infantile. Lei ci imponeva di essere sempre buoni e gentili, soprattutto con chi è costretto a spingere palline di cacca. Quindi, ogni volta che vedevo un gruppetto di insetti, il mio cervello mi sussurrava: «baciali tutti, anche quello stercorario, anche le formiche, anche le vespe. Fa sapere loro che li ami, Maia potrebbe arrabbiarsi di brutto». E io, per non deluderla, li salvavo e, ignorando le proporzioni della mia bocca, cercavo di coccolarli e baciarli. Così ho finito per ingurgitare palate di formichine e coccinelle indifese. Perché l’insetto stercorario, alla fine, non ce l’ho mai fatta a baciarlo. Perdonami, Maia.

Anna dai capelli rossi, insegnami la vita

Heidi Anna dai capelli rossi

Anna dai capelli rossi ha vissuto in me per anni. Il suo phatos contagiava le mie lunghe e sconclusionate lettere. I suoi sfoghi, che a confronto i dolori del giovane Werther erano dei crampi intestinali, hanno influenzato il mio umore per tutta la pre-adolescenza. Anna è colei che mi ha insegnato la virtù di piangere a comando (che non ho mai imparato a fare). Quella che mi ha trasmesso l’insana curiosità per le maniche a sbuffo (che non ho mai né acquistato né indossato). Anna era la mia ossessione, la mia musa ispiratrice. Ogni salto a corda, ogni casella della campana era compiuta in suo nome. Ma l’insofferenza per le ingiustizie era la caratteristica di lei che più mi ispirava. Cosa avrebbe fatto Anna al posto mio? E così, durante l’ora di italiano, in difesa di un mio compagno di classe – ingiustamente punito per non aver capito nulla della lezione – dopo le mie rimostranze, davanti alle parole della maestra: “zitta o ti taglio la lingua”, io lo feci. Per “protesta” presi le forbicine di plastica (dalla punta arrotondata) e mi graffiai un pezzettino di lingua, lasciando così sgorgare un rivoletto di sangue, con mia somma soddisfazione. Un graffietto insignificante, sia chiaro, ma comunque un gesto forte per la maestra, che da quel momento smise di minacciare delle bambine armate di forbici arrotondate. Anna sarebbe stata così orgogliosa di me.

El Barto vive

Heidi Bart Simpson

Avendo avuto la (s)fortuna di essere una noiosissima bimba delle elementari, diligente, obbediente e studiosa (tagli di lingua a parte), in un modo o nell’altro la ribellione albergava in me. Il sistema scolastico, nel quale ero perfettamente a mio agio, doveva essere sovvertito. Perché lo diceva El Barto, alias Bart Simpson. Quindi, dopo aver fatto i compiti, dovevo pur soddisfare quell’afflato di ribellione. Non potevo sottrarmi ai miei obblighi: gli atti di vandalismo estremo dovevano essere compiuti. Dovevo sovvertire le regole e manifestare la mia insofferenza verso il potere costituito (che non avevo). A giorni alterni, dunque, restavo in classe dopo la campanella e riempivo le lavagne di serie interminabili di “ciucciati il calzino”. All’indomani però, di quell’atto di sabotaggio, non è mai importato niente a nessuno. Tantomeno alla maestra, che cancellava la lavagna con nonchalance, senza prestare nemmeno attenzione al messaggio rivoluzionario che avevo impresso con il gesso. L’unica risposta che ho ottenuto è stato un pene gigante che qualche compagno ci disegnava sopra per prendersi gioco della mia opera di ribellione giovanile.

Mi vergogno di tutto ciò? Ovviamente sì.

Ma, in fondo, quella bambina è ancora intrappolata in me. Per quanto strambi o folli, i nostri ricordi di infanzia ci definiscono. Sono legati alle prime esperienze seriali, ma rappresentano anche dei mattoncini importanti su cui abbiamo edificato la nostra personalità. Anche se potrebbero sembrare dei ricordi da T.S.O, vale comunque la pena custodirli e riviverli, di tanto in tanto.

Pensavi di essertela scampata, eh! Ora è il tuo turno. Confessa e liberati dai ricordi più assurdi legati ai cartoni animati della tua infanzia.

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