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Negli ultimi dieci anni la serialità televisiva ha conosciuto una vera e propria età dell’oro. Con l’avvento delle piattaforme di streaming come Netflix e la conseguente moltiplicazione dei contenuti, le serie tv hanno acquisito uno statuto che le ha rese paragonabili, spesso, alle grandi produzioni cinematografiche. Titoli come Breaking Bad, The Crown o Stranger Things hanno dimostrato che un prodotto seriale può avere un impatto globale, alimentare discussioni transnazionali e diventare parte integrante del dibattito culturale. Pertanto, è in questo contesto che, il concetto di “arco narrativo”, assume un ruolo fondamentale.
Nello specifico, parliamo della traiettoria che un personaggio, una relazione o un’intera storyline percorrono nel tempo, intrecciandosi con il tessuto narrativo generale. L’arco narrativo è ciò che dà senso alla visione: è la promessa implicita fatta dallo sceneggiatore al pubblico, la direzione verso cui i fili della trama convergono. Quando funziona, l’arco diventa catartico, capace di imprimersi nella memoria collettiva con momenti iconici e indimenticabili. Quando fallisce, invece, genera frustrazione, senso di tradimento e, nei casi più estremi, un rifiuto totale dell’opera da parte dei fan.
Molti prodotti hanno lasciato cicatrici profonde negli spettatori
Alle volte il problema è stato un finale affrettato, scritto in poche puntate dopo anni di costruzione paziente. In altri casi la colpa è stata di plot twist gratuiti, pensati per sorprendere ma privi di radici logiche nella storia. Non mancano, poi, esempi di scelte produttive esterne che hanno inciso direttamente sulla scrittura: licenziamenti, scandali, attori costretti a lasciare un set. Il pubblico contemporaneo, inoltre, è molto più attento e partecipe rispetto al passato. I social media hanno reso possibile la nascita di vere e proprie comunità di spettatori che analizzano ogni episodio, ipotizzano sviluppi, formulano teorie e investono emotivamente nei personaggi.
Questo livello di coinvolgimento amplifica inevitabilmente la delusione quando le aspettative non si rispettano. Non a caso, il fenomeno del backlash online, esplosioni di rabbia collettiva sui forum, su Reddit, su Twitter, è diventato un indicatore potente del un arco narrativo fallace. Analizzare i dieci archi narrativi più deludenti degli ultimi dieci anni significa, quindi, fare un doppio esercizio. Da un lato, bisogna ricordare i casi in cui la serialità televisiva non è stata all’altezza delle promesse fatte. Dall’altro, è necessario comprendere meglio le dinamiche che regolano il rapporto tra autori e spettatori nell’epoca dello streaming. È un terreno complesso, dove il bisogno degli sceneggiatori di sorprendere si scontra con il desiderio degli spettatori di coerenza e gratificazione emotiva.
In questa prospettiva, il nostro percorso si snoderà tra finali disastrosi, personaggi stravolti senza ragione, cliffhanger costruiti più per manipolare che per appassionare, e trame che hanno perso progressivamente senso fino a sfociare nell’assurdo. Tuttavia, questi rimangono archi narrativi che, pur nelle loro mancanze, sono diventati memorabili e rappresentano vere e proprie lezioni su ciò che la serialità deve evitare per non tradire la fiducia del proprio pubblico.
1) Il Trono di Spade: l’arco narrativo che ha tradito le sue promesse

Quando Game of Thrones debuttò nel 2011, rivoluzionò il panorama televisivo. Con la sua complessità politica, la ricchezza dei personaggi e una costruzione narrativa stratificata, la serie targata HBO divenne rapidamente un fenomeno globale, capace di tenere incollati milioni di spettatori e di generare un livello di dibattito raramente visto per un prodotto televisivo. Proprio per questo, le aspettative per la stagione finale erano enormi.
A tal proposito, dopo sette anni di intrighi, tradimenti, battaglie e profezie, il pubblico attendeva una conclusione epica, coerente e memorabile. La stagione 8, però, si è trasformata in un caso emblematico di arco narrativo fallito. Il primo grande problema è stato il ritmo. Solo sei episodi per chiudere decine di archi narrativi e dare un epilogo a personaggi che avevano avuto percorsi complessi e sfaccettati. La conseguenza è stata un’accelerazione forzata, che ha compresso sviluppi narrativi che avrebbero richiesto più tempo per maturare.
L’arco narrativo di Daenerys Targaryen è l’esempio più discusso
Dopo anni in cui era stata costruita come liberatrice, combattente della giustizia e simbolo di speranza, la sua trasformazione in “Mad Queen” si condensa in poche scene, apparendo improvvisa e poco credibile. Una svolta che, se ben preparata, avrebbe potuto avere una forza drammatica immensa, ma che così è stata percepita come incoerente e ingiustificata. Anche altri personaggi hanno subito la stessa sorte. Jaime Lannister, il cui percorso di redenzione era uno dei più riusciti, viene riportato indietro in maniera inspiegabile. Bran Stark, invece, diventa re senza che la sua storyline lo avesse preparato realmente a quel ruolo. Jon Snow conclude il suo cammino in maniera apatica, privo di una vera agency narrativa. A ciò si aggiunge la battaglia di Winterfell, criticata per le scelte registiche e per una gestione del climax che non ha reso giustizia all’attesa.
Il risultato è stato un senso diffuso di tradimento. Una serie che aveva abituato il pubblico a coerenza, sottigliezza e scelte coraggiose si è chiusa con una scrittura percepita come semplificata e orientata più a chiudere in fretta che a lasciare un’eredità narrativa all’altezza. Non sorprende, dunque, che la stagione 8 sia diventata il simbolo stesso della delusione seriale. Tanto da generare petizioni per la sua riscrittura e infiniti dibattiti online. In definitiva, Game of Thrones non è ricordato solo come una delle serie più grandi mai realizzate. Ma anche come un case study su come persino un’opera titanica possa crollare sotto il peso di scelte narrative discutibili.
2) Con “Last Forever” nove stagioni vengono vanificate in poco tempo

How I Met Your Mother (ecco un focus sul finale della serie) è stata per quasi un decennio una delle sitcom più amate della televisione contemporanea. Dietro la leggerezza delle gag e la struttura da commedia romantica, la serie nascondeva un progetto narrativo ambizioso. Ossia, raccontare, attraverso una lunga serie di flashback, come Ted Mosby avesse conosciuto la madre dei suoi figli. Questa promessa narrativa, mantenuta viva per nove stagioni, ha accompagnato lo spettatore con pazienza, aspettative e teorie, fino al tanto atteso epilogo.
Con il doppio episodio finale, Last Forever del 2014, l’attesa si è però trasformata in uno dei più criticati archi narrativi della serialità recente. Dopo aver finalmente presentato al pubblico Tracy McConnell, la “Madre”, e aver mostrato la nascita di un rapporto dolce e sincero tra lei e Ted, gli autori hanno scelto di ribaltare la prospettiva. Tracy muore di malattia in un salto temporale. E la storia si conclude con Ted che, anni dopo, torna da Robi, la stessa relazione che per otto stagioni era descritta come incompatibile e superata.
Il problema sta nell’annullamento della costruzione narrativa
Il percorso di crescita di Ted, la centralità di Tracy come figura ideale, persino lo sviluppo degli altri personaggi sono stati cancellati in pochi minuti. La sensazione per molti spettatori è stata quella di un espediente forzato per riportare la trama a un punto che sembrava già superato. Il risultato è stato un’ondata di critiche feroci, con fan e critici che hanno accusato la serie di aver confuso l’effetto sorpresa con una vera chiusura narrativa.
Invece di fornire un epilogo emozionante e catartico, Last Forever ha lasciato un retrogusto amaro. E questo ha trasformato una sitcom brillante e innovativa in un esempio da manuale di come non chiudere una lunga serialità. Non a caso, questo arco narrativo di How I Met Your Mother continua a essere ricordato come uno dei più discussi della televisione moderna, al punto da oscurare in parte il valore della serie stessa.







