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Painkiller – Recensione della dolorosa miniserie di Netflix

ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler su Painkiller.

Questa è la storia di Glen Klyger, un gommista della Virginia (o di una qualsiasi zona rurale della Virginia). Glen ha una sua officina con la quale mantiene la sua famiglia. L’officina è a conduzione famigliare per cui dei conti se ne occupa la moglie, Lily, mentre a dare una mano a Glen ci pensa Tyler, figlio di un precedente matrimonio di Lily.
Tyler è un adolescente come tanti. Ha tanta voglia di perder tempo e pochissima di esser responsabile. Un giorno, proprio durante un momento di sano cazzeggio, Tyler combina un casino e Glen finisce in ospedale con qualche vertebra fratturata. Lo operano e tutto sembra andare per il meglio ma il dolore è insopportabile e non esistono farmaci per aiutarlo a riprendere l’attività lavorativa. O forse sì, forse esiste qualcosa che possa rendergli la vita migliore. Si tratta di un nuovo medicinale, l’OxyContin, una piccola pillola considerata miracolosa capace di ridare una vita decente a tutte quelle persone come Glen oppresse dal dolore cronico.
Il farmaco all’inizio funziona, anche molto bene. Glen torna a lavorare in officina e non avendo più dolore ha di nuovo un’intensa vita sessuale con la moglie. C’è un motivo per il quale lo diciamo e più avanti capirete perché.
Il ritrovato benessere, però, ha un prezzo: la dipendenza. Glen, infatti, pur rassicurato dal suo medico curante, sviluppa una assuefazione al farmaco che lo porterà a volerne sempre di più fino a rovinare la sua vita, inizialmente, e quella della sua famiglia, in seguito. Fino a trovare la morte per overdose in uno squallido parcheggio di un centro commerciale.
Questa è la storia di Glen, interpretato da Taylor Kitsch (Terminal List e Waco). Una storia romanzata che però assomiglia a tante, tantissime altre. All’inizio di ogni puntata una madre o un padre ci avvisano che lo show che stiamo per guardare si basa su eventi reali. Alcuni personaggi, nomi, eventi, luoghi, come capita spesso in questi casi, sono stati romanzati per fini drammatici. Quello che non è stato romanzato è la fine che hanno fatto i figli e le figlie di questi genitori: divenuti tossicodipendenti a causa dell’OxyContin e poi morti per overdose.

painkiller
Taylor Kitsch 640×360

Painkiller non racconta soltanto la storia di Glen. Racconta anche quella di Edie Flowers, interpretata da Uzo Aduba (Orange is the New Black e In Treatment) investigatrice della procura che per puro caso incappa in quello che sarà uno degli scandali americani più importanti degli ultimi cinquant’anni.
E racconta anche quella di Shannon Schaeffer, interpretata da West Duchovny (The Magicians e Saint X) giovane e intraprendente rappresentante farmaceutica disposta a (quasi) tutto pur di diventare ricca sfondata attraverso la vendita dell’OxyContin.
Glen, Edie e Shannon, fulcro della narrazione, sono come archetipi. Ognuno di loro si fa carico di un ruolo e lo porta avanti nel corso delle sei puntate create e scritte da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster, qui alla loro nona collaborazione insieme. Sotto l’attenta e puntigliosa regia di Peter Berg (tra le altre cose regista o produttore esecutivo di Collateral, Lone Survivor e Boston – Caccia all’uomo) capace di risucchiare dagli attori ogni briciola di dolore e di umiliazione, i tre protagonisti ci permetteranno di comprendere una storia ancora più grande e terribile: quella della Purdue Pharma, azienda farmaceutica americana, accusata e condannata per aver fuorviato medici e pazienti sui reali danni collaterali derivati dall’abuso dell’antidolorifico OxyContin.

Painkiller, viaggiando su tre binari paralleli che raramente si incrociano, ci permette di osservare una storia agghiacciante da punti di vista differenti. Per i tre personaggi principali non c’è alcuna possibilità di redenzione, purtroppo. L’aver toccato con mano un farmaco altamente distruttivo come l’OxyContin comporta un marchio indelebile che li segnerà per sempre.
Certo, a subirne le conseguenze più gravi è il povero Glen e la sua famiglia. Ma anche Edie e Shannon saranno travolte dalla pericolosità dell’inganno e dell’abuso (in questo caso di credulità) e ne usciranno con le ossa rotte difficilmente ricomponibili.
I tre personaggi si sono fidati di quello che gli è stato raccontato e si sono comportati di conseguenza pagando un conto finale che non avrebbero dovuto ricevere. Un conto che la Purdue Pharma e i suoi scagnozzi gli presentano senza alcuna vergogna addossando loro ogni colpa. Terribile, a pensarci, perché l’impressione che ne viene fuori è che alla fine chi ha il denaro è in grado di manipolare il sistema, sanitario prima e giudiziario dopo, a suo favore.
In Painkiller non ci sono eroi che alla fine risolvono tutto dando allo spettatore quel necessario sentimento che giustizia sia fatta. La miniserie, per questo, è impietosa nel raccontare una briciola di una storia terrificante che conta oltre trecentomila morti solo negli Stati Uniti. È una storia vera e per quanto possa esser stata romanzata fa male, davvero tanto. Perché sulla salute, almeno su questa, non dovrebbero esserci speculazioni di sorta. Ma come spesso accade la realtà supera la fantasia.

Matthew Broderick 640×360

Per onestà intellettuale dobbiamo dire che nella miniserie è presente anche un quarto punto di vista: quello della casa farmaceutica rappresentata da Richard Sackler, diretto discendente del fondatore e interpretato da un impressionante Matthew Broderick, soave quanto pericoloso.
L’idea di offrire il più potente antidolorifico, painkiller in inglese, mai creato prima è lodevole, sì. Chi soffre merita comunque una vita dignitosa e certi farmaci, molto potenti, possono essere un toccasana (e per questo prima abbiamo parlato dell’attività sessuale del protagonista: potrebbe sembrare qualcosa a cui si può anche rinunciare per non soffrire ma non dovrebbe essere così).
Il problema è che nonostante gli autori cerchino di dare al personaggio di Broderick un’impronta psicanalitica molto forte e interessante (il confronto continuo con il defunto zio, interpretato da Clarck Gregg, è davvero toccante in certi frangenti) alla fine si riduce tutto in due semplici parole: profitto e avidità. Con conseguenza che anche le migliori intenzioni, se portate avanti con consapevole fraudolenza, diventano pessime e pericolose.

Painkiller
Uzo Aduba 640×360

Painkiller apre una ferita mai del tutto rimarginata almeno negli Stati Uniti. A raccontare questa storia un paio di anni fa ci aveva già pensato la miniserie targata Disney+ DopesickDichiarazione di dipendenza. Painkiller, però, è ancora più tragica e arrabbiata. Le lacrime di Edie, derivate da una pena e una frustrazione personale più grandi, raccontano il desiderio e la rassegnazione a mollare e l’incapacità di farlo perché giustizia, e non risarcimento, non è ancora stata fatta.
Painkiller, tuttavia, parla anche di fiducia e di sfiducia: quella che l’individuo comune ha nei confronti della scienza e dei suoi rappresentanti. Ci fermiamo subito per non aprire un dibattito molto pericoloso, soprattutto in questi ultimi anni. Ma è chiaro che gli interessi di certi colossi dell’industria farmaceutica vanno ben al di là di ciò che è bene e ciò che è male. Più che comprensibile visto che si parla di miliardi di dollari ogni anno.

Painkiller è un pugno diretto nello stomaco dello spettatore, molto forte. La miniserie targata Netflix è davvero ben fatta e tratta l’argomento della dipendenza e del dolore in maniera davvero impetuosa, impossibile non venirne travolti. La commozione e la rabbia, la sorpresa e l’incredulità sono soltanto alcune delle veementi emozioni che è capace di scatenare. Forse sarebbe stata più adatta per l’autunno o l’inverno dato l’argomento trattato perché c’è il rischio, con l’estate e la voglia di svagarsi, che venga considerata troppo pesante. Quel che è certo è che va vista gustandosi proprio quell’amaro sapore che lascia in bocca.