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Frankenstein – La Recensione dell’attesissimo film di Guillermo Del Toro

Una scena tratta dal film Frankenstein

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Frankenstein di Guillermo Del Toro è un sogno divenuto realtà. Un film che il regista ha conservato nel taschino della creatività da quando era ragazzo e che fuoriesce in tutta la sua bellezza attraverso un’opera artistica completa, divisa in due atti preceduti da un prologo. Nella pellicola disponibile su Netflix dal 7 novembre, infatti, possiamo fare esperienza del punto di vista di entrambi i protagonisti. Da un lato lo scienziato Victor Frankenstein e dall’altro ciò che egli considera il suo prodotto. Una Creatura assemblata – decostruita e ricostruita – apparentemente priva d’intelligenza, generata da un’ossessione che è diretta conseguenza di un trauma del passato rimasto irrisolto.

La narrazione ovviamente prende il racconto di Mary Shelley e lo adatta, rendendolo fortemente materico e sensoriale. L’originalità apportata da Del Toro dunque non risiede solamente nella riscrittura di alcune parti del romanzo. Quel che rende questo film una gioia per gli occhi – oltre che per il pensiero e le emozioni – sono i costumi, le scenografie, la ricchezza dei dettagli e degli oggetti di scena uniti alla colonna sonora di Alexandre Desplat.

Ogni elemento è stato inserito con accurata precisione e lucidità per infondere armonia ed equilibrio alla composizione generale, come un pittore che sa esattamente dove dare il tocco di pennello sulla tela. Un verde qui, un viola là, un azzurro mai troppo freddo e, accostato a questi colori, il rosso. Vivo e saturo. Necessario per evidenziare alcuni indumenti e suppellettili legate ai personaggi e all’ambiente in cui si muovono. Non possiamo davvero sollevare alcun tipo di critica al comparto tecnico di questa pellicola. È un racconto visivamente appagante, che lascia a bocca aperta scena dopo scena.

Frankenstein
Credits: Netflix

Questa sensazione ci avvolge già dalle primissime sequenze in cui sentiamo il gelo del ghiaccio dell’Artico penetrarci nelle ossa, merito di una fotografia perfetta dall’inizio alla fine, capace di immergerci fino alla punta dei piedi nell’arte del pittore romantico Caspar David Friedrich. Impossibile infatti non pensare al suo quadro Il mare di ghiaccio, dipinto nel 1823-24, in cui il soggetto era proprio un naufragio finito nel peggiore dei modi. In realtà tutta la pellicola di Del Toro è intrisa di componenti romantico-gotiche. Oltre all’opera del pittore tedesco c’è tanto – anzi, tantissimo – delle incisioni di un altro artista ottocentesco: Gustav Dorè. Quest’ultimo illustrò – tra gli altri – quello splendido componimento poetico che è la Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, che nel preludio del Frankenstein di Del Toro sembra essere un’immagine metaforica ma profondamente connessa alla messinscena.

Da un momento all’altro ci si aspetterebbe persino di veder comparire l’AlbatrosFrankenstein: una Creatura innocente che viene ferita a morte da un gruppo di marinai. E così avviene. L’equipaggio del vascello incagliato nel ghiaccio prende di mira il mostro, senza tuttavia riuscire a ucciderlo. La rabbia causata dalla maledizione dell’immortalità traspira dalle bende in cui è avvolto il viso della Creatura. Diventa vapore acqueo a contatto con le temperature gelide dell’Artico, investendo gli uomini con tutta la furia di cui è capace. Frankenstein è alla ricerca del suo demiurgo, quel padre non desiderato che gli ha tolto la possibilità di morire e che nella sua follia scientifica non prova né compassione né umanità.

Oscar Isaac porta in scena un Victor Frankenstein egocentrico, ruvido, arrogante, volutamente fastidioso, talmente ossessionato dalla morte da dimenticarsi la bellezza della vita. La Creatura di Jacob Elordi è dolorosamente umana. Tenera e sofferente. Emarginata e incompresa ma capace, con lo scorrere della storia, di sviluppare una coscienza e una sensibilità che formano la sua identità. L’interpretazione dell’attore è tutta nello sguardo, perennemente sospeso sul filo della malinconia e del dolore. Impossibile da sostenere. Incredibile nella sua naturalezza.

Victor Frankenstein
Credits: Netflix

Successivamente al preludio, la narrazione – come detto in precedenza – prende due direzioni separate ma speculari. Si torna indietro nel tempo, la location cambia e si sposta tra le strade di pietra di Edimburgo e poi di nuovo lontano, in un territorio isolato. Il luogo in cui sorge la torre-laboratorio gotica, nerissima, dove Victor compie i suoi esperimenti plasmando i resti di persone defunte in carne viva. Vene, tendini, scarti di pelle e quanto di più macabro possa esserci. Tuttavia, in tutta questa sostanza, esiste un’anima? E se sì, dov’è collocata? Questi interrogativi posti allo scienziato dal fratello William (Felix Kammerer) sollevano altri quesiti di natura più filosofica.

Quali sono le caratteristiche che definiscono un uomo? Perché viene data così tanta importanza alla superficie dell’involucro che ci contiene, se poi quel contenitore è vuoto di amore e di sentimenti? Del Toro porta l’attenzione, come spesso è avvenuto anche nei suoi lavori precedenti, alla questione su chi sia il vero mostro. Chi è Victor e chi è Frankenstein? Chi tra i due può essere chiamato mostro e perché?

Intorno ai due protagonisti ruotano poi alcuni personaggi comprimari altrettanto interessanti e tormentati. Elizabeth (Mia Goth), è la fidanzata di William e rappresenta l’ago della bilancia ideale nel fare da contraltare alla visione del mondo meccanicistica dello scienziato. La sua passione per gli insetti, le farfalle, la natura ci permette di esplorare e di considerare in modo più spirituale l’effimera esistenza degli esseri viventi. Tutto in natura è fugace ed anche per questo bellissimo.

Frankenstein
Credits: Netflix

La ragazza è la sola, insieme al Vecchio Cieco interpretato da un bravissimo David Bradley, ad accogliere con estrema dolcezza e genuinità la Creatura generata da Victor. Il Vecchio, in quanto non vedente, non può in alcun modo giudicare Frankenstein per il suo aspetto ma può semmai valutarlo solo per le sue azioni. Ed è a seguito degli interventi generosi della Creatura che l’anziano lo chiamerà con un nome completamente diverso ma chiaramente eloquente: lo Spirito della Natura.

Il contrasto tra materia e spirito si fa ancora più serrato quando Frankenstein è circondato dalle uniche due persone che nutrono affetto per lui. C’è però una terza via, incarnata dal personaggio di Harlander (Christoph Waltz). Quest’ultimo è un mercante d’armi malato di sifilide, condannato dunque a una vita breve e a una morte atroce. È lui quindi il finanziatore degli esperimenti di Victor nei quali vede una speranza di salvezza, se lo scienziato decidesse di dare nuova vita al suo corpo martoriato dalla patologia. Giunti all’epilogo della storia si hanno dunque tre differenti livelli di visione della realtà. Quello di Victor (l’uomo è una macchina fatta di materia). Quello di Elizabeth e il Vecchio (l’uomo è spirito e deve restare quanto più possibile vicino alla Natura). Infine quello di Harlander (l’uomo è materia e spirito e l’immortalità non è una condanna bensì un dono).

Questo film presenta molteplici chiavi di lettura e probabilmente una sola visione non è sufficiente per cogliere tutto quello che il suo autore ha voluto comunicare. Frankenstein di Guillermo Del Toro è un’esperienza che va vissuta, lasciata lì a sedimentare e a evolvere, per poi essere rivista nuovamente. Di una cosa però siamo certi. Quando un artista riesce a realizzare il proprio sogno, la sua gioia e il suo amore emanano come luce calda e rassicurante da ogni singolo elemento. Che sia un personaggio, un’inquadratura, una stoffa, una melodia o un dialogo. Il suo Frankenstein doveva essere un racconto di morte, ma tra le mani di Del Toro è diventato un inno alla Vita.