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No, Amsterdam Empire non si è presa sul serio – Recensione della nuova serie olandese, ora su Netflix

Amsterdam Empire, la nuova serie Netflix

ATTENZIONE: il seguente articolo potrebbe contenere spoiler su Amsterdam Empire.

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Da fuori, Amsterdam Empire sembra avere tutto per piacere: glamour, tradimenti, potere. E Famke Janssen che torna a recitare in olandese dopo decenni. Il trailer promette un crime drama sofisticato. Anche perché gli autori sono gli stessi della sconosciuta, eppure validissima Undercover. Peccato che bastino dieci minuti per capire che Amsterdam Empire non ha alcuna intenzione di prendersi sul serio. Tanto meno di farsi prendere sul serio.

Non è un thriller. Non è una soap opera. Men che meno una commedia, se non per sbaglio. Eppure, tra urla isteriche, alleanze improbabili e un toro meccanico che sembra uscito da un incubo erotico di David Lynch, Amsterdam Empire riesce a intrattenere. A patto che la si guardi con le giuste aspettative. O meglio: senza aspettative. Perché la verità è questa: Amsterdam Empire è una commedia noir travestita da dramma familiare, dove l’eccesso non è un difetto ma lo stile dominante. I personaggi mentono, urlano, complottano e cavalcano tori fallici non perché abbiano una psicologia complessa ma perché in questo mondo grottesco, è l’unica lingua che parlano.

Amsterdam Empire: un triangolo amoroso piuttosto scaleno

Al centro della storia c’è Jack van Doorn (Jacob Derwig), magnate dei coffee shop e proprietario dell’impero “The Jackal”, un uomo talmente sicuro di sé da credere che il divorzio sia una semplice questione burocratica. Poi c’è Betty Jonkers (Famke Janssen), sua moglie, ex pop star che ha messo da parte la carriera per costruire una vita con lui. E infine Marjolein Hofman (Elise Schaap), conduttrice televisiva con cui Jack ha una relazione e che sogna di diventare la nuova signora Van Doorn.

Ma attenzione: questo non è un triangolo equilatero. E nemmeno isoscele. È uno scaleno emotivo, dove il lato di Marjolein è talmente corto da risultare quasi invisibile. Lei arriva tardi, senza conoscere tutta la storia, i figli, i segreti, le bombe a mano nell’armadio. Cerca di imporsi, certo, ma viene travolta dal vortice che ruota attorno a Jack e Betty, un legame così profondo che nemmeno il tradimento riesce a spezzare del tutto.

È qui che Amsterdam Empire mostra la sua unica vera intuizione: Jack e Betty non sono nemici, sono due facce della stessa medaglia. Si conoscono troppo bene per odiarsi davvero. La loro guerra è teatrale, sanguinosa, ma anche intima. E quando Betty, dopo la sparatoria a Jack, stringe un’alleanza con Katja (Jade Olieberg), prima moglie di Jack, capisci che non sta solo cercando vendetta: sta giocando una partita più grande, dove il vero obiettivo non è distruggere Jack, ma prendere il controllo del racconto (e del Jackal).

Betty Jonkers: da cliché a stratega (grazie a Famke Janssen)

Il trio di protagonisti in una delle tante litigate, in Amsterdam Empire
Credits: Netflix

All’inizio, Betty sembra il solito stereotipo: la moglie tradita che vuole rubare tutto al marito ricco. Ma qualcosa cambia dopo la sparatoria, momento che funge da spartiacque narrativo. Da quel punto in poi, Betty smette di essere solo rabbia e diventa puro calcolo. Si allea con chiunque possa darle un vantaggio, persino con la prima moglie di Jack, e usa ogni arma a disposizione per raggiungere il suo scopo.

Gran parte del merito va a Famke Janssen, che ha dichiarato apertamente di aver voluto evitare che il personaggio diventasse una “vendicatrice fredda”, insistendo invece sulla vulnerabilità nascosta dietro la furia. E in effetti, nei momenti più intensi, come quando scopre che Jack ha ucciso il suo socio Guido, la sua rabbia non è teatrale: è umana, dolorosa, quasi materna. Peccato che la sceneggiatura non le dia sempre lo spazio per brillare. Spesso Betty sembra costretta a recitare in una serie che non sa decidere se vuole essere seria o ridicola. Ma l’attrice sa resistere, e anzi, trasforma i limiti del testo in opportunità di caratterizzazione.

Le donne al centro dell’impero

C’è un paradosso interessante in Amsterdam Empire. Ufficialmente racconta l’ascesa e la caduta di un uomo ma in realtà tutto ruota attorno alle donne che lo circondano. Betty, Katja e Marjolein non sono comparse nel dramma di Jack. Ne sono i tre motori che ne definiscono la traiettoria.

Betty è la stratega, capace di trasformare il dolore in potere e la rabbia in metodo. Katja è la memoria: osserva Jack con un misto di disincanto e tenerezza, e finisce per allearsi con Betty in un gesto che unisce pragmatismo, convenienza e, almeno in parte, solidarietà femminile. Marjolein è la più ingenua e vulnerabile, invece. Arriva da estranea, crede di poter gestire un triangolo impossibile, e finisce travolta da un mondo che non è fatto per lei.

È curioso che in una serie apparentemente dominata dagli uomini, siano proprio le donne a condurre il gioco. Gli uomini, Jack in testa, reagiscono, si difendono, si illudono di comandare. Le donne, invece, pianificano, manipolano e sopravvivono.

Amsterdam Empire: colpo di scena e nastro riavvolto

La serie comincia con Jack van Doorn che viene crivellato di colpi in mezzo a un ponte affollato, sotto gli occhi di turisti ignari e di una guida che fino a un secondo prima lo indicava come “la celebrità locale”. Poi… buio. Silenzio. E subito dopo, invece di seguire l’ambulanza o interrogare i testimoni, la narrazione tira il freno a mano, accende una canna e dice: “aspetta, partiamo da un mese fa.
Non è un flashback nel senso drammatico del termine ma una specie di rewind obbligatorio, perché altrimenti non avremmo la minima idea di chi sia questo tizio, perché qualcuno volesse ammazzarlo, e soprattutto perché sua moglie sembra più arrabbiata per il divorzio che per l’omicidio tentato.

E infatti, quel “mese prima” non serve a creare suspense (sappiamo già che finirà male), né a nascondere colpevoli (non ce ne sono di veri), ma a darci il tempo di conoscere i protagonisti mentre litigano, tradiscono, urlano e si fanno dispetti con la precisione di due gatti in un sacchetto. Ogni scena, ogni decisione, ogni messaggio vocale lasciato in segreteria ci riporta, con la delicatezza di un camion in retromarcia, verso quel momento sul ponte.
Sì, forse alcune situazioni si trascinano più del necessario. Ma in fondo, in una serie che celebra l’eccesso come stile di vita, anche la durata diventa parte dello spettacolo.

Il mondo dei coffee shop: erba legale, regole illegali (ma nessuno ci fa caso)

Sulla carta, Amsterdam Empire aveva tutto per diventare una sorta di The Wire moderna, in salsa olandese. Un’immersione nel cuore pulsante dell’industria della cannabis legale, con le sue zone grigie, i suoi equilibri precari tra legalità e crimine, la tensione costante con la polizia e le gang rivali. Invece, no. Il mondo dei coffee shop è usato più o meno come sfondo da cartolina: luci al neon, vetrine fumose, turisti che si fanno selfie con uno spinello in mano. La marijuana non è un tema: è un accessorio, come il cappotto di pelliccia di Betty o il sorriso smagliante di Marjolein.

Quando finalmente la serie prova a toccare il lato criminale, lo fa con una tale dose di grottesco da far sembrare Come vendere droga online (in fretta) un documentario della BBC. I gangster sembrano clown armati e persino gli omicidi hanno un che di teatrale, quasi da operetta violenta. Non c’è realismo, non c’è tensione autentica. Solo caos coreografato, dove tutti sparano, urlano e muoiono senza mai sporcarsi veramente le mani.
E forse è proprio questo il punto: in Amsterdam Empire, il crimine non è oscuro, è kitsch. E il kitsch, si sa, non ha bisogno di regole ma solo di un buon fondale.

Stile sopra ogni cosa. Soprattutto sopra la sostanza

Jack e Marjolein osservano smarriti quello che Betty sta facendo in televisione
Credits: Netflix

Visivamente, Amsterdam Empire è una carezza per gli occhi. I canali riflettono luci dorate, le notti ammiccano con insegne al neon, e ogni inquadratura sembra uscita da un catalogo di viaggi di lusso. Netflix ha chiaramente aperto il portafogli, e i registi Jonas Govaerts e Max Porcelijn ne approfittano per regalarci un tour fotografico di Amsterdam che farebbe invidia a un influencer con 500mila follower.

Peccato che dietro questa patina impeccabile la narrazione zoppichi. Le scene drammatiche scivolano via senza lasciare traccia, i dialoghi rimbalzano senza peso, e l’empatia per i personaggi è un lusso che la serie non si concede mai davvero. È come se i registi avessero deciso che, finché il cielo è arancione e le biciclette sono vintage, non importa se la storia non convince.

C’è però una scena che salva tutto: quella del toro meccanico fallico. Sì, avete letto bene. Jack deve restare in sella a questo marchingegno ridicolo per dimostrare di essere ancora “lo Sciacallo”. È assurda, surreale, quasi onirica, eppure funziona. Perché in quel momento, la serie smette di fingere di essere un crime drama serio e abbraccia con orgoglio il suo lato pulp. Non è realismo: è teatro. Non è tensione: è spettacolo. E per una volta, Amsterdam Empire riesce a essere esattamente ciò che vuole. Anche se non sa bene cosa.

Amsterdam Empire: tanto fumo e poco arrosto

Alla fine Amsterdam Empire non ti lascia con una rivelazione, né con un colpo di scena memorabile, tantomeno con una lezione morale. Non è innovativa, e non cambierà il mondo in cui guardate le serie tv. Quindi? Beh, intanto non è noiosa. Ed è già tanto. Per un’oretta vi lascerà un po’ storditi, forse confusi e vagamente divertiti. E va bene così: non tutto deve avere necessariamente un’anima.

Guardatela. Ma non aspettatevi un capolavoro. Semmai, una sfolgorante vacuità, ben vestita e illuminata. Un prodotto fatto con mestiere ma senza troppa passione. E se alla fine vi ritrovate a chiedervi “che cosa ho appena visto” non preoccupatevi. È la domanda giusta. Ed è anche la risposta che Amsterdam Empire merita.