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Sarebbe potuta durare ore. Avremmo voluto che quelle prime tre puntate (disponibili su Disney+) non fossero solo tre, ma l’intera stagione. La sacra arte del binge watching sarebbe stata perfetta per la nuova Serie Tv All’s Fair, in uscita da martedì 4 novembre con i suoi primi tre episodi. Diretta da Ryan Murphy, che torna dietro la macchina da presa con un progetto radicalmente diverso dall’antologia Monster, All’s Fair è basilare, leggera, a tratti eccessiva e profondamente legata al mondo delle soap, ma ha anche dei difetti. Dopo le incursioni nel genere horror, Ryan Murphy sceglie di cimentarsi con una produzione inedita nel suo repertorio. Nell’ultimo anno lo avevamo visto impegnato con Doctor Odyssey, il Medical Drama ambientato su una nave da crociera che non ha riscosso particolare successo, e con Monster.
Ma dopo aver confermato la tredicesima stagione di American Horror Story – con un cast che promette un ritorno alle origini – il regista torna dietro la macchina da presa per un Legal Drama che sembra volerci dimostrare che, mentre Desperate Housewives dominava il piccolo schermo, Ryan Murphy era lì, davanti alla tv, a studiarne ogni dinamica. E quasi quattordici anni dopo, eccola qui: la nuova soap opera al femminile firmata da uno dei registi più eccentrici della televisione internazionale.
All’s Fair è una Serie Tv che, se provieni dalla vecchia scuola Desperate Housewives, non vorresti mai smettere di guardare. Anche se non ci sono motivi validi per non smettere

Ryan Murphy torna su Disney+ con una Serie Tv che riunisce alcune delle sue storiche muse – come Sarah Paulson, volto iconico di American Horror Story e Ratched; Niecy Nash, protagonista di Monster: La storia di Jeffrey Dahmer e Grotesquerie; Naomi Watts, già interprete di The Watcher e Kim Kardashian, già apparsa in American Horror Story – insieme a nuovi nomi di spicco, come Teyana Taylor, protagonista della nuova pellicola di Paul Thomas Anderson Una Battaglia dopo L’altra. Dal cinema visionario di David Lynch, rappresentato qui da Naomi Watts, fino all’iconografia pop incarnata da Kim Kardashian, All’s Fair è un viaggio eccentrico, volutamente teatrale, che gioca con l’eccesso nei dialoghi e nelle scelte narrative, ma riesce sempre a non risultare mai ridondante o stancante per il pubblico.
Ryan Murphy, d’altronde, così come ha saputo reinventare il genere horror attraverso antologie capaci di utilizzare la paura come lente d’ingrandimento della società, si conferma una garanzia anche nel racconto seriale più leggero, quello che non ambisce a riscrivere la storia della televisione, ma a diventare un guilty pleasure irresistibile, che non ha necessariamente l’intenzione di lasciare il segno. Murphy sa raccontare il trash, sa esplorarlo e renderlo più che godibile, un compagno d’avventura con cui alla fine non stai quasi mai, ma che quando incontri non riesci a salutare. Il trash di All’s Fair, in queste prime tre puntate, si muove abilmente tra gli stereotipi e i cliché del genere televisivo dando voce al mondo femminile, qui unica prospettiva della narrazione.
Al centro della vicenda ci sono sei avvocate che, dopo aver subito umiliazioni e discriminazioni in uno studio legale dominato da uomini, decidono di fondare un proprio studio, destinato – nel giro di dieci anni – a diventare uno dei più influenti degli Stati Uniti. Specializzate in cause di divorzio, queste sei donne difendono mogli umiliate e trattate come oggetti, trofei da esibire e poi scartare. È qui che trovano riscatto, nel momento della separazione, grazie a sei professioniste disposte a tutto pur di vincere, anche ricorrendo a strategie moralmente discutibili.
Ma non c’è solo il lavoro: All’s Fair lascia spazio anche ai percorsi personali delle protagoniste, raccontando battaglie intime e sociali che riflettono la condizione femminile contemporanea, proprio come l’intera serie (basti pensare, in questo senso, alla frecciata diretta nei confronti della scrittrice J. K. Rowling). È importante, chiaramente, sottolineare la leggerezza di All’s Fair: pur raccontando il mondo femminile, non è sua intenzione diventare una Serie Tv di denuncia sociale. Il suo intento è meramente satirico, una parodia di un legal drama che non desidera complicarsi la vita esagerando con il dramma. Ciò che mira a fare è ironizzare sui conflitti di questi borghesi, chiunque essi siano, mettendo al contempo al centro dinamiche che, in un certo senso, rispecchiano il mondo contemporaneo, senza tuttavia generare profonde riflessioni a riguardo.

Abbiamo gongolato. Abbiamo goduto immergendoci in un trash che ci era mancato e parecchio, e che qualche volta occorre. Tra lussuose ville minimaliste che abbiamo visto in tutte le Serie Tv di questo tipo – e rieccole qui – e studi legali in cui le cause non si discutono a colpi di codici, ma di frasi a effetto e parolacce ben assestate, in sole tre puntate abbiamo visto di tutto: matrimoni naufragati e riscattati con assegni da 200 milioni, vendette servite dall’attico più alto della città, e diatribe tra colleghe pronte a sacrificare tutto, perfino se stesse. E noi lì, spettatori di un mondo che non ci appartiene, un mondo di vetro pregiato, che però sembra sempre sul punto di andare in frantumi.
Tutto meraviglioso, anche nella sua precarietà. Anche se sappiamo che non entrerà nelle classifiche di fine anno, che è stato tutto eccessivo, e che la recitazione ha vacillato, All’s Fair ci ha ricordato quanto possa essere delizioso il trash quando ne abbiamo bisogno, e quanto gli intrighi legali – che di legale hanno ben poco – possano diventare il nostro conforto quotidiano, magari in una giornata in cui ci prepariamo a soffrire per una possibile vittima dell’ultima stagione Stranger Things o per un episodio straziante di The Pitt. A volte c’è bisogno anche di questo. E per fortuna Ryan Murphy torna ciclicamente a riproporcelo.






