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Un progetto ambizioso, un cast stellare, una mitologia riscritta in chiave moderna. Quando Kaos è stata annunciata, l’attesa era tanta. Ma quando Kaos è finalmente arrivata, la trepidazione era ancora più grande. Eppure, qualcosa non ha funzionato come molti speravano. In un panorama seriale sempre più affollato e competitivo, Kaos aveva tutti gli ingredienti per emergere, eppure il risultato è stato differente.
Nella prima (e purtroppo unica) stagione abbiamo visto una rielaborazione del mito greco che si proponeva audace e originale. Ma al contempo qualcosa è rimasto in sospeso, senza riuscire a trovare quella coesione emotiva e narrativa che avrebbe potuto consacrarla a nuovo cavallo di battaglia di Netflix.
Il referto finale? Un rimpianto: non tanto per ciò che è stata, quanto per ciò che poteva diventare. La lunga attesa tra annuncio e uscita ha alimentato un hype che Kaos non è riuscita completamente a contenere — e quando è arrivata, era forse già troppo tardi. Una cancellazione dopo una sola stagione ha suggellato la sensazione che questa potenziale “serie evento” sia rimasta, semplicemente, un’occasione mancata. Tuttavia, se dobbiamo ricordarla è proprio perché, per un momento, ci ha fatto sognare un mito diverso. E vale la pena, dunque, chiedersi cosa resta di Kaos — e perché quel rimpianto non ci abbandonerà.
Il rimpianto chiamato Kaos

Quando Kaos ha debuttato su Netflix, lo ha fatto con una promessa di grandiosità che difficilmente poteva ignorare. Dal concept — la mitologia greca reinterpretata in chiave contemporanea, tra Olimpo, Terra e Inferi — al cast (Jeff Goldblum nei panni di Zeus è il vero sdegno dato da questa cancellazione), fino agli ambienti spettacolari e alla scenografia senza compromessi. Eppure, al netto di tutto, qualcosa è mancato. Il sogno c’era, la forma anche, ma l’urgenza narrativa — quell’intima carica emotiva capace di trasformare la mitologia in qualcosa di urgente e rilevante — è rimasta a margine.
Sì, Kaos intrattiene, e per certi versi affascina: l’estetica è curata, il registro irriverente e il gioco tra divino e umano promettente (il gioco di parole con Prometeo non è voluto). Ma occorre dire che non ha mantenuto la promessa — non ce l’ha fatta a collocarsi alla “punta di diamante” che si prospettava. Il rimpianto, perciò, deriva da questo scarto: tra “ciò che poteva essere” e ciò che, in definitiva, è stato. E spesso, nel crudele mondo delle produzioni televisive, è questo scarto che pesa di più.
Con ottime premesse, non è stata tanto l’esecuzione incerta a fregare Kaos, ma il tempismo (ironico, no? Per una serie che parla di immortalità)
La struttura di Kaos è ambiziosa: tre piani narrativi, molteplici personaggi (divini e umani), continui salti temporali, un intreccio che mira a essere complesso. Tuttavia, la molteplicità ha funzionato più come intralcio che come forza. Troppi fili da gestire, troppi livelli che avrebbero richiesto una mano più ferma o più tempo. La serie non ha saputo — o forse non ha avuto la libertà — di modulare l’ambizione con la chiarezza. E in quel senso, il risultato è un’esperienza che alterna momenti di brillantezza a momenti di confusione, o — peggio — di sussulto narrativo che poi non viene pienamente capitalizzato.
In più, la lunga gestazione (dal 2018 all’uscita nel 2024) non ha giocato a suo favore: l’hype era talmente alto da diventare un peso. Quando un brand si auto-costruisce un’aspettativa elevata, il margine di errore diventa ridotto. E Kaos, in questo, ne ha pagato il prezzo.
A sigillare il rimpianto e la negazione del potenziale, la sua cancellazione
La decisione di Netflix di non rinnovare la serie dopo una sola stagione ha chiuso la parentesi in modo brusco. Era chiaro che Kaos aveva potenziale — ma un potenziale rimasto in gran parte inespresso. In un certo senso, questa cancellazione sottolinea il carattere “di passaggio” della produzione: non un fallimento totale, non un capolavoro, ma un esperimento che ha toccato alcune corde giuste senza riuscire a rimanere appeso alle corde più alte. Questo, se vogliamo, è il cuore del rimpianto: non ci troviamo davanti a un flop clamoroso sul piano della qualità (ci sono momenti che funzionano), bensì a una promessa non mantenuta, a una traiettoria che si interruppe troppo presto.
Quando una serie con tali potenzialità si ferma prima ancora di completare il suo arco, la memoria che ne rimane è fatta di domande: cosa sarebbe successo ancora? Quale direzione avrebbe preso? Quale evoluzione sarebbe stata possibile? Ed è proprio quell’“ancora” che rende Kaos un titolo di cui ci ricorderemo — per quel che avrebbe potuto essere, non solo per quel che è. Soprattutto se consideriamo, poi, quali altre serie continuano o hanno continuato a essere prodotte (a discapito della qualità, che qui c’era tutta).
Cosa ci resta?
È importante precisare: non è tutto negativo. Kaos ha dei meriti reali. Il concept è originale, la trasposizione mitologica riesce ad agganciarci in modo originale, alcune scene e ambientazioni mandano in estasi. Come ho già scritto in passato, la serie merita di essere guardata per la sua estetica. Il barocco incontra il classicismo, il mito si confonde con il contemporaneo. In un tempo in cui molte serie evitano rischi, Kaos ha osato. E questo di per sé merita riconoscimento.
Inoltre, Kaos lascia traccia di un coraggio nel provare a reinterpretare il mito, nel voler miscelare generi — commedia, dramma, black humour — e proporre una narrazione che non fosse semplicemente “mitologia rivisitata”, ma qualcosa di più. Il coraggio però non basta: serve anche che il sistema narrativo funzioni e che i tempi siano calibrati.
E qui sta il nodo: Kaos aveva tutto per funzionare, ma non ha potuto svilupparsi a pieno. Il risultato? Un rimpianto che non è solo nostalgico, ma critico. Perché serve ricordare cosa manca, come promemoria, per le produzioni future. Perché Kaos è un monito: il talento, l’idea, il cast non bastano se il motore narrativo non è sostenuto da un’evoluzione coerente.
Perché vale la pena parlare ancora di Kaos?
Ci ricorderemo di Kaos non tanto per lo show in sé — che pure merita di essere visto — ma per quello che non ha potuto diventare. Come ci suggerisce lo stesso creatore, Charlie Covell, continueremo a parlarne. Perché nel mondo delle serie tv vale tanto la potenza del “what if”, quanto la concretezza del “what is”. E Kaos è quel caso in cui il “what if” pesa più del prodotto finito. In questo senso, diventa un titolo da studiare, da discutere, da tenere in memoria: un esempio di come l’ambizione possa diventare un freno quando il contesto non la sostiene pienamente.
In definitiva, la domanda che rimane è semplice: se fosse durata, se fosse stata più salda nella sua identità, se fosse riuscita a bilanciare tutti i livelli del suo racconto — sarebbe potuta diventare una delle serie più rilevanti del suo tempo? E se la risposta ci pare “sì”, quel che ci resterà è il rimpianto. Un rimpianto che, paradossalmente, rende Kaos più affascinante. Perché ci ricorda che anche i progetti più promettenti possono sciogliersi, e che il mito — quello vero, potente — vive forse proprio nel non completato. E in questo senso, Kaos sarà una di quelle serie che non finiranno semplicemente per quello che sono state, ma per quello che potevano essere. E per questo motivo, ce la ricorderemo.




