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L’Italia aveva un gran bisogno di un prison drama come Il Re

Il Re, la serie tv diretta da Giuseppe Gagliardi con Luca Zingaretti nei panni del protagonista, è andata in onda su Sky Italia più o meno nelle stesse settimane in cui Ariaferma, altro prodotto di intrattenimento made in Italy, si aggiudicava due David di Donatello per la sceneggiatura originale e per il miglior attore protagonista a Silvio Orlando. Nella pellicola di Leonardo Di Costanzo, in cui troviamo anche Toni Servillo nelle vesti di una guardia carceraria costretta a prendere il comando in un penitenziario in via di dismissione, il grande protagonista è proprio il carcere. Il carcere inteso non solo come entità fisica, in cui stazionano individui in cerca di espiazione, ma anche e soprattutto come costrutto mentale, come metafora più allargata dell’umanità, considerata in tutta la sua agghiacciante complessità e contraddittorietà. Le storie ambientate nei penitenziari hanno avuto sempre una certa fortuna, al cinema come in tv. Serie televisive come Prison Break, Breakout Kings, Alcatraz, Orange is the New Black, Rectfy o la più recente For Life sono riuscite a creare una discreta fanbase e far parlare di sé anche dopo la fine della messa in onda.

Oz è stato il grande capolavoro che ha reso celebre il genere del prison drama, poi ampiamente ripreso nel corso degli anni con nuove idee e nuove proposte.

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La tradizione americana è piena di precedenti e modelli da cui trarre ispirazione. Grandi pellicole cinematografiche, come pure show televisivi, hanno contribuito a creare nel corso dei decenni un vero e proprio gusto per il genere. Ma perché piacciono tanto le storie ambientate in carcere? Probabilmente perché la morale di chi guarda è costretta a recedere di fronte alla realtà atroce e drammatica dell’universo carcerario, un universo in cui non ci sono quasi mai buoni e cattivi, solo vinti. In quello spazio angusto, emergono contraddizioni e lacerazioni morali. I giudizi vanno sospesi, perché a prevalere sono istinti differenti, che avvicinano l’uomo alla sua natura più nascosta e vulnerabile. Il desiderio di fuga, l’istinto di sopravvivenza, l’abbandono e la resa a se stessi sono spunti di grande attrattiva per chi voglia esplorare le mille intercapedini dell’animo umano. Al prison drama riesce in maniera naturale.

Il Re è il primo esempio di serie televisiva di questo genere nella televisione italiana.

Sul versante delle produzioni tv, nessuno si era ancora mai imbarcato in un’avventura simile. Nel 2011, su Rai 2, veniva trasmesso in seconda serata Sbarre, una sorta di docureality sul carcere di Rebibbia che provava ad aprire un primo squarcio in quel microcosmo. L’idea era di Filippo Cipriano e a presentarlo c’era Fabrizio Moro. Malgrado la seconda serata, Sbarre toccò anche punte di mezzo milione di spettatori, ma il format era un ibrido a cavallo tra reality show e documentario a puntate. La sceneggiatura de Il Re (ecco le recensioni della serie) è invece di Stefano Bises, Peppe Fiore, Bernardo Pellegrini e Davide Serino, che l’hanno realizzata a otto mani per Sky. Non è un caso che il primo esempio di prison drama non sia approdato sulla tv generalista. La scelta è coraggiosa e la serie guarda ad un pubblico più in linea con i gusti delle produzioni Sky che non a quelli della tv popolare. Non c’è l’eroe buono – il volto rassicurante di Luca Zingaretti assume qui le sembianze di un personaggio buio e ambiguo – e non ci sono linee di demarcazione che rendano netta la separazione tra bene e male. Le sbarre isolano i criminali dalle guardie, ma la distanza tra loro è solo apparente, una pura formalità.

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Bruno Testori è il Re del carcere San Michele. Un uomo pensieroso, sofferente dietro la corazza di ferro, ombroso. Gli scatti netti e decisi del volto, la postura sempre tesa – tutti dettagli che Zingaretti ha curato con estrema attenzione -, le parole parche e misurate, descrivono la fisionomia di un uomo schiacciato dalla vita, che però prova a reagire, a riemergere. E la sua reazione coincide con la sua battaglia: quella per una giustizia effettiva, che non viene però dallo Stato e dalle sue leggi, molto spesso inefficaci e contraddittorie, ma promana direttamente dalla sua autorità. Il San Michele è il suo regno, Testori il suo sovrano assoluto. Le lungaggini burocratiche, le interminabili catene di comando, le autorizzazioni e le procedure legittime non esistono, le controversie si risolvono subito e nella maniera più persuasiva. Così, quando una serie di omicidi minaccia la sicurezza del San Michele, Testori deve far ricorso ai suoi metodi per individuare il pericolo e disinnescarlo. La storia ha uno sviluppo lineare: la fitta rete di misteri e minacce viene svelata nelle puntate finali, il momento in cui si raggiunge l’apice del climax narrativo. Ma esiste anche uno sviluppo più profondo, che è quello che penetra la scorza dei personaggi, le loro relazioni, la loro capacità di venir fuori da situazioni complesse. Qui diventa ben visibile l’ottima fattura del prodotto.

L’Italia aveva bisogno di un prison drama come Il Re.

Innanzitutto perché esiste un pubblico attento a questo tipo di storie che, non trovando appagamento tra le proposte della nostra televisione, cerca altrove quello di cui sente bisogno. In Italia non era ancora mai stata fatta una serie tv ambientata in un carcere. Il Re va a coprire uno spazio vuoto che era lì da anni solo in attesa di essere riempito. La serie diretta da Gagliardi si riallaccia naturalmente ai gusti internazionali, ma riesce anche a fare sfoggio di una buona dose di originalità. Non è semplice emulazione, ma rielaborazione del genere. La scenografia e la fotografia hanno contribuito molto ad esaltare alcuni aspetti di questa serie tv. Gli ambienti crepuscolari, il contrasto ricercato tra luci e ombre, il senso di angusto e di claustrofobico, hanno aiutato Il Re a presentarsi come una storia soffocante e ambigua, proprio come molti dei suoi personaggi.

Il successo che la serie ha avuto su Sky ci fa ben sperare per un secondo capitolo, ma non solo. Nel genere drammatico la serialità italiana sta facendo passi da gigante, proponendo sempre più spesso prodotti innovativi e qualche volta spericolati. Quasi sempre il pubblico risponde in maniera positiva, a dimostrazione di quanto una diversificazione dell’offerta sia quanto mai necessaria per poter aspirare a fare televisione di un certo livello. Dopo il successo di Ariaferma e de Il Re, l’Italia può segnare un grosso punto a suo favore nella produzione di titoli ambientati nel microcosmo carcerario. Ora la serie di Luca Zingaretti può attestarsi a tutti gli effetti come capostipite italiana del genere prison drama. E per la nostra televisione è certamente una buona notizia.

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