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Il cacciatore: il magistrale lavoro svolto sui villain

Si è da poco conclusa la terza ed ultima stagione de Il cacciatore (qui trovate la nostra recensione), apprezzatissima serie Rai con protagonista Francesco Montanari nei panni di Saverio Barone, personaggio immaginario ispirato alla figura di Alfonso Sabella, autore del romanzo Il cacciatore di mafiosi, da cui appunto è tratta la serie. In questo articolo vogliamo focalizzare la nostra e la vostra attenzione su uno degli aspetti che più di tutti abbiamo apprezzato di questa serie: la caratterizzazione dei villain. Per quanto si tratti di personalità realmente esistite, gli autori e gli attori sono stati in grado di portare sullo schermo dei personaggi fortemente connotati, curati nel dettaglio e perfetti per comunicare al pubblico la perfidia criminale della mafia degli anni ’90. E’ chiaramente impossibile amarli, ma è innegabilmente ammirevole il modo in cui sono stati descritti, e oggi vogliamo provare ad analizzarli a fondo.

Il cacciatore 1: Leoluca Bagarella, lo stratega

il cacciatore

La prima stagione de Il cacciatore si concentra da subito sui fatti successivi all’arresto di Totò Riina, ed in particolare allo sconvolgente caso del rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo. Tra le fila dei superstiti di quello che fu il maxi processo a Cosa Nostra, su tutti spicca la figura di Leoluca Bagarella, cognato di Riina e super latitante, obiettivo numero uno della procura di Palermo, visto come successore e massimo esponente del Clan dei Corleonesi. Dietro al rapimento del piccolo Di Matteo c’è proprio lui, tra gli altri, ed ha pianificato il tutto per colpire il padre del bambino, Santino Di Matteo, uno dei tanti pentiti di Cosa Nostra, nel tentativo di minacciarlo e convincere a ritrattare le sue dichiarazioni. Il personaggio di Bagarella è interpretato da David Coco, attore catanese non al primo ruolo come questo, aveva infatti già interpretato Provenzano nel film tv del 2007 L’ultimo dei Corleonesi. Ne Il cacciatore Bagarella ci viene descritto come un uomo potente, intelligente, attento ai dettagli e soprattutto temutissimo, sia dai suoi sottoposti, in particolare dal suo autista Tony, che dal pool antimafia, soprattutto dal magistrato Carlo Mazza, il quale si vede molto provato dalle indagini perché ha come obiettivo quello di vendicare l’ex collega Falcone, e questa sua volontà contagia da subito anche Barone. Il boss però ha dei punti deboli evidenti. E’ solo, non si fida di nessuno, se non della sua amata moglie Vincenzina, con la quale non riesce a procreare.

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L’emblema della sua sofferenza è dato proprio dal rapporto con la sua partner, che tanto ama e della quale si prende cura quasi in modo paterno, proprio per il fatto che da lei non riesce ad avere un figlio. Vincenzina è una donna semplice, non è una criminale, più che una compagna è un tesoro da proteggere, ma Bagarella non riesce a darle quello che lei desidera, una vita normale e serena, portandola alla decisione di farla finita, parallelamente al fatto che suo marito è il mandante del sequestro di un bambino indifeso. Il declino del super boss comincia quando, di rientro a casa dopo una giornata di sporchi affari, scova il cadavere di sua moglie, che si è impiccata perché infelice, costretta ad una vita di solitudine e di costrizioni. La scena è da brividi, accompagnata da un vuoto sonoro e le lacrime dell’insensibile boss che lasciano lo spettatore esterrefatto di fronte alla sofferenza di chi si pensava non avesse un briciolo di umanità. Vincenzina amava suo marito, ma odiava profondamente la sua condizione, e dal suo suicidio in poi anche Bagarella sembra perdere forze, deconcentrandosi e dimostrandosi umano nell’errore fatale che gli costa la cattura. Il primo tassello importante dell’era post Riina cade, dando il via ad un pericoloso domino di passaggi di consegna. Ma se l’imprendibile stratega Bagarella, sprezzante a tal punto di nascondersi proprio di fronte alla casa del nemico, è stato catturato, quel che resta dei Corleonesi è ben avvisato.

Il cacciatore 2: Giovanni Brusca, la bestia

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Interpretato da Edoardo Pesce, in un ruolo a lui familiare in quanto affine sia al personaggio di Ruggero Buffoni, sia a quello di Simone, il perfido antagonista di Dogman di Matteo Garrone, per il quale ha vinto il David di Donatello. Giovanni Brusca ci viene presentato, già dalla prima stagione, come il più giovane erede di Bagarella, suo braccio destro in un certo senso. E’ un personaggio violento, corpulento e feroce, e dalla seconda stagione ci si concentra molto sulla sua personalità, che si rivela essere estremamente narcisista. In seguito alla cattura di Bagarella, Brusca comincia ad avere manie di protagonismo, a sentirsi onnipotente. Figlio di un passato difficile, cresciuto insieme al fratello Enzo, altro personaggio straordinariamente connotato, interpretato da Alessio Praticò. Uno degli aspetti più interessanti nella narrazione del personaggio sta proprio nel rapporto fraterno: i due sono uniti dalla brama di potere, ma hanno differenti personalità. Giovanni protegge suo fratello ma allo stesso tempo lo sua come valvola di sfogo, portandolo presto ad impazzire. Lo tratta come un suo sottoposto e lo veicola facilmente, sarà infatti lui uno degli incaricati a mettere fine alle atroci sofferenze del piccolo Di Matteo, dopo un sequestro spaventosamente lungo. Degna di nota è la scena in cui, in seguito all’omicidio, Enzo si reca ad assistere al concerto della sua spasimante, ballando come un pazzo sulle note di E La Luna Bussò della Berté. Brusca, tra i vari villain de Il cacciatore, è quello che più di tutti si dimostra totalmente apatico, senza un briciolo di umanità, perfetto esempio della ferocia di Cosa Nostra.

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Il suo smisurato ego lo porta a compiere scelte sconsiderate. Brusca si sente arrivato, si sente talmente potente da potersi permettere di non rinunciare ad una vita di sfarzi, preferendo costruirsi una fortezza degna del suo nome, piuttosto che rintanarsi in un bunker dal quale limitarsi a muovere le pedine. Brusca non è un leader, forse non crede nemmeno negli ideali anti-Stato della mafia, la sua piuttosto è ignoranza. L’ignoranza più pericolosa e becera che esista, indicativa della maggior parte degli affiliati di Cosa Nostra, che vengono dal nulla e violentemente si impongono sui più deboli per fare i propri interessi. Ed è proprio questa alta considerazione di sé che lo porta a perdere tutto, facendosi tracciare telefonicamente e conducendo la polizia ad arrestarlo, di soppiatto, nel proprio castello. Il personaggio di Giovanni Brusca è la rappresentazione del più classico dei mafiosi, violento ed ignorante, arricchitosi grazie a Cosa Nostra, che esercita il suo potere sottomettendo gli alleati ed intimidendo i nemici. Pesce è il miglior interprete possibile nel ruolo, sia per la suddetta familiarità, sia perché è incredibilmente capace nel fare sua la personalità di Brusca e comunicare allo spettatore paura, rabbia e ribrezzo per le sue tremende azioni.

Il cacciatore 3: Pietro Aglieri, il santone

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E poi, in conclusione, il magistrale lavoro svolto da Gaetano Bruno nei panni di Pietro Aglieri. Aglieri è (essendo ancora vivo) un personaggio molto particolare, un boss atipico verrebbe da dire. Soprannominato U signurinu, per via dei costosi abiti che amava indossare, si diplomò al liceo classico, segno di una mente pensante differente rispetto alla maggior parte dei mafiosi. Il personaggio che vediamo ne Il cacciatore è legato in modo imprescindibile alla religione, tanto da affidarsi spesso a Dio per prendere decisioni importanti e per confessarsi e spogliarsi delle sue colpe tramite il suo prete di fiducia. Da un certo punto di vista già questo legame potrebbe portare a pensare che dietro al pericolo boss ci sia un animo almeno lontanamente sensibile, ma d’altro canto pian piano nella narrazione emerge il suo maniacale rapporto con Davide, suo sottoposto che tratta come un figlio spirituale. Aglieri è geloso di lui, finendo per tagliarlo fuori quando questi esprime la sua volontà di partire con la sua amata. Questo momento ci fa cominciare a comprendere la complessità della mente del boss, diviso a metà tra la fede e il morboso e singolare rapporto instaurato con Davide. Aglieri però non è solo alle redini di Cosa Nostra. Insieme a lui, anzi, sopra di lui, c’è anche Bernardo Provenzano. I due formano la parte razionale (per usare un alquanto inappropriato eufemismo) della mafia, quella contraria a proseguire con le stragi e gli attentati, distaccatasi da tempo dai vari Riina, Bagarella e Brusca, per non attirare ulteriormente l’attenzione. Il nome di Provenzano fa paura anche al santone Aglieri, che tenta di nascondere invano l’odio e l’invidia nei suoi confronti. 

Il dualismo tra i due ci regala, nel corso della terza stagione de Il cacciatore, alcuni confronti di altissimo livello di scrittura, per quanto riguarda i dialoghi, e di alta tensione emotiva. Provenzano ha dalla sua parte i contatti con Roma, che non vuole svelare ad Aglieri (motivo fondante della rivalità tra i due), onde evitare pericolosi conflitti d’interesse. Il super boss dimostra di avere sempre in pugno la situazione, rivoltando Aglieri come un calzino e colpendolo nel suo punto più debole, ossia Davide. Questi viene incaricato di battezzarsi compiendo il primo omicidio, nonostante l’opposizione del suo capo, che però non può fare altro che accettare, imponendogli di affidarsi a Dio in quel momento, utilizzando un unico proiettile e, in caso di cilecca, lasciar andare la vittima designata. E’ proprio l’affidarsi a Dio, l’insicurezza ed il rifugio cercato nella sua figura a tradire prima Davide e poi, soprattutto, Pietro. Davide viene scoperto a tentennare e viene ucciso per ordine di Provenzano, che non può fidarsi di lui, trafiggendo nell’animo Aglieri. La scena in cui questi, disperato, dorme con il cadavere del figlio spirituale è raccapricciante quanto stracolma di significato emotivo. Aglieri viene catturato poco dopo, mentre tenta di fuggire dal suo bunker spirituale. Forse Pietro Aglieri non doveva diventare un mafioso, forse non è adatto a quel mondo, e così decide di rifugiarsi in Dio perché nel profondo sa di errare, anche se spesso chiude gli occhi di fronte al peccato. Fatto sta che tutto il simbolismo religioso di Cosa Nostra si concentra in questo splendidamente connotato personaggio, un boss atipico, sì, ma non senza peccato, nonostante finga di distinguersi.

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