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FUBAR 2 – La Recensione: la spy comedy con Arnold Schwarzenegger si conferma una comfort zone

Luke e Greta, uno sguardo all'amore passato

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ATTENZIONE: nel presente articolo potrebbe essere presente spoiler su FUBAR 2

Dopo il debutto nel 2023, FUBAR era riuscita a colpire nel segno. La formula era semplice ma efficace: una spy comedy piena di autoironia, guidata da un Arnold Schwarzenegger inaspettatamente a suo agio nel ruolo di ex agente della CIA e padre imperfetto, affiancato da un cast ben scelto. La prima stagione non pretendeva di rivoluzionare il genere, ma intratteneva con leggerezza, equilibrio e un pizzico di nostalgia. Era un prodotto che funzionava proprio perché non si prendeva troppo sul serio, e che restava impresso pur non cercando il titolo di capolavoro.

Con la seconda stagione, disponibile su Netflix dallo scorso 12 giugno, l’impressione iniziale è che si sia cercato di replicare quella stessa formula, senza però introdurre vere innovazioni. Il risultato è un prodotto che scorre bene, diverte, ma lascia anche un vago senso di già visto. È una stagione che funziona se si accetta il patto: zero ambizioni di originalità, ma tanto mestiere, azione ben confezionata e comfort narrativo. Se vi basta questo, la visione può ancora valere il tempo. Se invece cercate un salto di qualità, è probabile che restiate delusi.

La serie resta fedele a se stessa, e questo può essere sia un pregio che un limite. Se da un lato offre continuità e conferma il tono brillante che l’ha fatta apprezzare, dall’altro mostra i primi segni di stanchezza. Come spesso accade nei sequel, il rischio è quello di restare imprigionati nel successo della formula originale, senza trovare il coraggio di evolversi.

FUBAR 2: una comfort zone a base di spionaggio e battute

Emma alle prese con una danza frenetica, FUBAR 2
Credits: Netflix

La struttura narrativa di FUBAR 2 riprende abbastanza fedelmente quella della prima stagione. La storia generale si suddivide in missioni da portare a termine. Ogni episodio ruota, perciò, attorno a una minaccia. E, naturalmente, alle dinamiche familiari sempre tese. Il ritmo resta incalzante ma mai frenetico, i dialoghi alternano momenti di conflitto a gag riuscite, e ogni episodio si chiude con un cliffhanger che spinge a vedere il successivo. Tutto molto ben calibrato, certo (del resto a capo del progetto c’è Nick Santora, quello di Reacher), ma anche tutto già visto. Non ci sono veri scarti narrativi, nessun colpo di scena in grado di ridefinire le carte in tavola od offrire una nuova prospettiva sulla storia e sui personaggi.

La sensazione generale è quella di una serie che funziona ancora, ma che non prende rischi. Si muove all’interno della sua comfort zone, sfruttando elementi collaudati senza osare. Questo è particolarmente evidente nell’evoluzione (o meglio, nella non-evoluzione) dei personaggi. Soprattutto i protagonisti. Luke (Schwarzenegger) resta il solito padre che cerca di recuperare un rapporto con la figlia Emma (Monica Barbaro), mentre lei continua a dividersi tra la carriera e i legami affettivi. Entrambi sono simpatici, credibili, e ben interpretati, ma non mostrano una reale crescita rispetto alla prima stagione.

Una presenza che invece avrebbe potuto portare una ventata d’aria nuova è quella di Carrie-Anne Moss, volto iconico di Matrix, qui nei panni dell’ex agente e fiamma del passato di Luke, la tosta Greta. Il suo ingresso nel cast sembrava promettere dinamiche inedite e tensioni interessanti, sia in termini romantici che d’azione, ma il potenziale è sfruttato solo parzialmente. L’attrice porta sullo schermo un personaggio apparentemente duro, enigmatico, coerente con il suo stile, ma poco incisivo e cattivo. Greta avrebbe potuto essere la Fiona Glenanne della situazione, invece si limita a fare la Matrix guest star in modalità risparmio energetico. Un personaggio che prometteva tempesta e si accontenta di fare brezza. Un’occasione appena sfiorata per aggiungere un nuovo livello al confronto generazionale e alla dialettica tra vecchia scuola e nuove modalità operative.

La f*****a nostalgia degli Anni ’90

Ah, come si stava bene ai miei tempi! Roba da boomer, certo. Però… Il vero protagonista ideologico della serie resta l’immaginario anni ’90. FUBAR 2 è un continuo omaggio all’epoca d’oro del cinema d’azione, quella in cui Schwarzenegger era re indiscusso. Ogni puntata è disseminata di citazioni, strizzate d’occhio e riferimenti più o meno espliciti a film come True Lies, Commando, Last Action Hero. Persino l’estetica di alcune scene sembra voler evocare volutamente quei codici visivi: ralenti, musiche epiche, zoom improbabili. Tutto concorre a creare un effetto nostalgia che, per i fan più affezionati, rappresenta una vera e propria coccola.

Il problema, semmai, è che questa operazione di revival rischia di trasformarsi in un esercizio stilistico fine a se stesso. Se nella prima stagione questa scelta appariva fresca, sorprendente, in grado di distinguere la serie dal mare magnum delle produzioni spionistiche, ora tende a suonare ripetitiva. I riferimenti sono ancora godibili, certo, ma non stupiscono più. E in un contesto seriale dove l’evoluzione è la chiave per mantenere viva l’attenzione del pubblico, continuare a battere sugli stessi tasti può diventare controproducente.

FUBAR 2: divertente ma già visto

Una normale giornata di lavoro padre/figlia
Credits: Netflix

Nonostante tutto, FUBAR 2 è una serie che mantiene una buona capacità di intrattenimento. Si guarda con piacere, offre momenti comici ben riusciti e un’azione ben coreografata, e nel complesso riesce a far passare otto episodi senza mai annoiare. Il che, oggi, è davvero encomiabile. Resta, però, il fatto che lo spettatore attento percepisce subito la mancanza di novità. La scrittura si limita a ripetere dinamiche già esplorate, il worldbuilding non si arricchisce di nuovi elementi significativi, e la chimica tra i personaggi principali rimane bloccata nei ruoli già noti.

Certo, per molti questo non è un problema. Anzi, c’è chi apprezza proprio la coerenza con cui la serie resta fedele al suo stile e al suo tono. Ma chi cerca qualcosa in più, una crescita narrativa, un approfondimento psicologico, un’espansione del contesto, potrebbe restare deluso. FUBAR 2 non sbaglia, ma non osa. Non cade, ma nemmeno vola. E nel panorama odierno, dove l’offerta è ampia e competitiva, l’immobilità può costare cara.

Anche il nuovo antagonista, interpretato da Guy Burnet, non riesce a lasciare un vero segno. Il suo personaggio, Theo Chips, avrebbe tutte le carte in regola per risultare temibile: un terrorista carismatico e imprevedibile, dotato di motivazioni oscure e un piano globale ambizioso. Eppure Burnet, pur facendo del suo meglio, non riceve quello spazio necessario per costruire una minaccia davvero memorabile. Così ci reta è un cattivo piuttosto blando, che manca di quel carisma o spessore psicologico che avrebbe potuto mettere davvero in crisi la squadra e, soprattutto, Luke.

In attesa di una terza stagione… con una marcia in più

Al momento non ci sono conferme ufficiali su una terza stagione, ma la sensazione è che Netflix possa decidere di proseguire. I numeri sembrano esserci, e il personaggio di Luke Brunner ha ancora un buon potenziale, anche solo per il carisma indistruttibile di Schwarzenegger. Tuttavia, se FUBAR 2 vuole diventare FUBAR 3 dovrà necessariamente cambiare passo per evitare di diventare una copia sbiadita di se stessa.

Servirà più coraggio in fase di scrittura, magari con nuove dinamiche familiari, nuovi nemici realmente minacciosi, e una maggiore, reale attenzione all’evoluzione emotiva dei protagonisti. Servirà soprattutto uscire dal guscio della parodia anni ’90 e trovare un linguaggio più attuale, che possa convivere con lo spirito nostalgico senza esserne schiacciato. Altrimenti, anche l’effetto comfort rischia di trasformarsi in noia. Perché l’ironia di quegli anni nasceva in un contesto diverso da quello attuale. Oggi, il pubblico è abituato a una complessità narrativa e tematica che va oltre la semplice auto-citazione.

Le serie di successo contemporanee giocano spesso su più livelli: mettono in scena l’azione, ma anche il trauma, la politica, l’ambiguità morale. FUBAR, al contrario, sembra voler tornare a un’epoca in cui il divertimento era tutto, ma senza offrire un vero dialogo con il presente. Il rischio è che l’operazione nostalgia, se non contaminata da nuove istanze, finisca per parlare solo a chi quell’epoca l’ha vissuta, perdendo per strada gli spettatori più giovani o più esigenti

FUBAR 2 è come quella maglietta vintage che ci piace indossare ogni tanto: comoda, rassicurante, ci fa sentire a casa. Ma se la indossiamo troppo spesso, rischia di diventare logora. La sfida, ora, è trovare un nuovo guardaroba che ci faccia sentire allo stesso modo, ma con qualcosa in più. Le potenzialità ci sono tutte. Occorre avere il coraggio di sfruttarle appieno, magari, con un pizzico di imprevedibilità in più.