9) The Ritual

Diretto da David Bruckner nel 2017, il film parte da un lutto e finisce nel cuore di un incubo che non ha bisogno di spiegazioni razionali. Un gruppo di amici si ritrova per organizzare un viaggio, ma la serata finisce in tragedia quando uno di loro, Rob, viene ucciso durante una rapina. Luke, uno dei protagonisti, assiste all’omicidio ma rimane paralizzato dalla paura, incapace di intervenire. Sei mesi dopo, i sopravvissuti decidono di onorare la memoria di Rob con un’escursione nei boschi svedesi. Da qui in poi il film si muove su un terreno familiare – amici in mezzo al nulla, tensioni non dette, un sentiero sbagliato – ma quello che The Ritual riesce a fare è lentamente scardinare la logica dell’horror da campeggio per spingere tutto verso qualcosa di molto più grande e disturbante.
Il bosco, nella sua rappresentazione, non è solo un luogo ostile, ma il regno di una creatura mitologica.
La foresta vive di vita propria, guardando e ascoltando gli ignari escursionisti e giudicandoli. La creatura che si nasconde tra gli alberi è un’entità norrena chiamata Moder, figlia di Loki. Quando finalmente appare, ha una forma che sfida la logica, una creatura che sembra uscita da un incubo collettivo, mezzo alce, mezzo dio, con braccia umane che pendono dal volto come se il corpo fosse un tempio vivente.
Non c’è spiegazione per quello che vediamo. Solo un senso di piccolezza schiacciante, il sentirsi insignificanti di fronte a qualcosa di antico, imperturbabile e profondamente alieno, anche se nasce dai miti del nostro stesso continente. Luke non deve affrontare solo la creatura, deve affrontare sé stesso, la colpa di non aver agito, la verità che la paura lo ha definito.
10) The Empty Man

Basato solo vagamente sull’omonima graphic novel della Boom! Studios, The Empty Man (disponibile sul catalogo Disney+) è stato vittima di una distribuzione distratta e di una campagna promozionale che lo ha venduto come l’ennesimo horror adolescenziale. Eppure non si tratta solo di questo. Non è solo un film cosmic horror, è una discesa lenta e malata in un abisso esistenziale, un viaggio in cui la realtà si sbriciola sotto i piedi del protagonista e dello spettatore. La storia inizia con un prologo ambientato in Bhutan, un gruppo di escursionisti si imbatte in una figura scheletrica, mezza sepolta in una caverna. Di fronte alla strana e inquietante figura, uno di loro entra in uno stato catatonico, dopodiché la storia fa un salto in avanti di anni.
James Lasombra, ex poliziotto segnato da un trauma personale, cerca di aiutare una vicina la cui figlia è scomparsa. Seguendo una traccia che sembra riportare al folklore urbano di una creatura chiamata The Empty Man, James si ritrova a indagare su una catena di suicidi, su una setta pseudo-filosofica e su un’idea inquietante. La realtà così come la conosce è solo solo un costrutto fragile, manipolabile da entità che esistono in uno spazio tra pensiero e manifestazione. Le cose si fanno sempre più strane, fino a perdere ogni appiglio logico. Le identità collassano, il tempo si piega su sé stesso, e la narrazione — come in un incubo lucido — smette di seguire un senso lineare.
La setta che compare nel film parla apertamente di “canali” e “recettori”, di coscienze che si aprono a forze che non comprendono.
La regia è controllatissima. Ogni inquadratura sembra voler suggerire che qualcosa si stia muovendo ai margini, qualcosa che non vediamo ma che percepiamo, come un pensiero che non riusciamo a formulare. James è un protagonista spezzato, in cerca di senso in un mondo che non gliene dà più. E quando il film arriva alla sua conclusione, che non è una vera chiusura, ma una spirale che si richiude su sé stessa, non resta nessuna facile morale.
11) Event Horizon

Quando Event Horizon uscì nel 1997, il pubblico non sapeva esattamente cosa aspettarsi. Il trailer prometteva un thriller spaziale, con una nave scomparsa nel vuoto e un equipaggio mandato a indagare. Quello che invece arrivò fu un film cupo, spiazzante, che mischiava la fantascienza con il genere cosmic horror e lasciava lo spettatore con più domande che risposte.
Il regista Paul W.S. Anderson — lo stesso che qualche anno dopo avrebbe dato il via alla saga di Resident Evil — parte da una premessa classica. Una nave scomparsa misteriosamente riappare al limite estremo del sistema solare, vicino a Nettuno. Un nuovo equipaggio, guidato dal capitano Miller (Laurence Fishburne), viene mandato a recuperarla insieme al progettista della nave stessa, il dottor Weir (Sam Neill). Ma appena salgono a bordo, diventa chiaro che la Event Horizon non è più solo un relitto. Qualcosa di disturbante è accaduto, qualcosa che ha a che fare con una dimensione infernale.
Event Horizon è spesso descritto come un mix tra 2001: Odissea nello spazio e Hellraiser, e la definizione, pur semplificata, è utile.
Da un lato c’è la fantascienza “hardcore”, con astronavi, tute spaziali e viaggi interstellari. Dall’altro c’è un orrore profondamente metafisico. L’idea centrale è che la nave abbia attraversato un buco nero artificiale per superare le leggi dello spazio. Guardandolo oggi, Event Horizon è un film pieno di limiti, ma anche di intuizioni potenti. Il design della nave è gotico, pesante, volutamente opprimente. La nave stessa sembra viva, come se fosse diventata un’estensione dell’esperienza traumatica che ha attraversato.
Un aspetto spesso citato è la versione “perduta” del film. Anderson aveva girato scene molto più esplicite e disturbanti, che furono tagliate per volontà dello studio. Quelle sequenze mostravano con maggior chiarezza ciò che l’equipaggio della Event Horizon aveva vissuto. Forse è proprio la loro assenza ad aver mantenuto in vita il film. Perché il terrore funziona meglio quando resta in parte invisibile, come una ferita che non si rimargina del tutto.






