Ogni giorno proviamo a raccontare le serie TV con la stessa cura e passione che ci hanno fatto nascere.
Se sei qui, probabilmente condividi la stessa passione anche tu.
E se quello che facciamo è diventato parte delle tue giornate, allora Discover è un modo per farci sentire il tuo supporto.
Con il tuo abbonamento ci aiuti a rimanere indipendenti, liberi di scegliere cosa raccontare e come farlo.
In cambio ricevi consigli personalizzati e contenuti che trovi solo qui, tutto senza pubblicità e su una sola pagina.
Grazie: il tuo supporto fa davvero la differenza.
➡️ Scopri Hall of Series Discover
Yorgos Lanthimos è tornato, e ormai sembra non poterne fare a meno: ogni anno ci regala un’opera destinata a dividere, sconvolgere e far discutere. Bugonia, presentato in anteprima ai più importanti festival internazionali e ora finalmente arrivato nelle sale, è l’ennesima conferma di un autore che non si limita a raccontare, ma a provocare. La sua regia, ormai inconfondibile, è una firma scolpita nell’assurdo: ogni inquadratura è studiata per destabilizzare, per rendere il familiare improvvisamente inquietante. Come in Poor Things o The Favourite, ritroviamo i suoi attori feticcio – Emma Stone in primis – ma anche nuovi volti che sembrano usciti da un incubo lucido.
Con Bugonia, Lanthimos alza ulteriormente l’asticella. Il film nasce da una leggenda antica, quella della “bugonia”, in cui dalle carcasse di un bue nascevano api, simbolo di rinascita e trasformazione. Qui, però, la rinascita ha un prezzo: è la distruzione dell’uomo stesso. Tra le mani del regista, il mito diventa allegoria apocalittica, riflessione sul potere e sulla follia del controllo. Non è un caso che tra i produttori ci sia Ari Aster: insieme, i due maestri del disturbante firmano un film che sembra un esperimento biologico, una dissezione dell’animo umano.
La trama di Bugonia: tra paranoia, potere e verità inconfessabili

La storia si apre con un rapimento. Michelle Fuller, amministratrice delegata di una gigantesca multinazionale farmaceutica, viene sequestrata da Teddy Gatz, un apicoltore convinto che la donna sia in realtà un’aliena giunta da un’altra galassia per distruggere la Terra. Teddy, chiuso nel suo mondo paranoico e ossessionato da teorie complottiste, la rinchiude nel seminterrato di una casa isolata. La tortura, la interroga, le ruba i capelli (supposto mezzo di comunicazione con la navicella madre), certo che da qualche parte si nasconda un segno del suo legame con il cosmo. Ma è davvero pazzo o è l’unico ad aver capito qualcosa che gli altri ignorano? Questo è quello che lo spettatore non può fare a meno di domandarsi tutto il tempo.
Accanto a lui vive Don, il cugino fragile e ingenuo, che funge da coscienza sporca della vicenda. È la sua umanità, a tratti infantile, a contrastare con la freddezza di Michelle, una donna che anche da prigioniera non perde mai il controllo. Col passare dei giorni, i ruoli si ribaltano: la vittima diventa carnefice, e l’aguzzino si trasforma in un uomo terrorizzato da ciò che ha evocato. Lanthimos gioca con i generi – thriller, fantascienza, satira sociale – senza mai concedere un punto d’appoggio. Tutto è ambiguità, tutto è simbolo. Quando infine la verità si rivela, il confine tra follia e profezia si dissolve: chi sta davvero salvando il mondo, e chi lo sta condannando? Da qui in poi seguiranno spoiler. (Emma Stone cambia look ed è irriconoscibile!)
Un’allegoria sull’umanità che si autodistrugge

Come in ogni opera di Yorgos Lanthimos, anche in Bugonia ciò che vediamo non è mai solo ciò che sembra. Dietro la trama di rapimenti, torture e alieni si nasconde una riflessione più ampia e scomoda sull’essere umano e sul mondo che ha costruito. Il film è un’allegoria dell’autodistruzione della nostra specie: un pianeta ridotto all’osso, un’umanità che ha perso il contatto con la natura e con se stessa, e una divinità — o forse un giudice extraterrestre — che arriva non per conquistare, ma per constatare la fine di un esperimento fallito.
Teddy, che all’inizio appare come il “giustiziere”, l’unico disposto a ribellarsi, è in realtà l’immagine più sincera della nostra ipocrisia. Si crede portatore di verità, ma incarna la stessa violenza che accusa negli altri. È l’uomo moderno che grida “giustizia” mentre stringe il pugno, convinto di difendere il pianeta ma incapace di riconoscere le proprie colpe. Nel suo desiderio di smascherare il male, Teddy non fa che ripeterlo: il suo bisogno di punire è la versione più feroce della stessa logica distruttiva che ha portato l’umanità sull’orlo del baratro. Lanthimos sembra chiederci: che senso ha cercare un colpevole, se il colpevole siamo noi? Possiamo davvero parlare di giustizia quando ogni gesto nasce da rabbia, paura e vendetta? Bugonia diventa così una parabola crudele, dove la giustizia umana è solo un modo elegante per lavarsi le mani del disastro che abbiamo creato.
La spiegazione del finale: distruzione o liberazione?

Nel finale, Lanthimos compie il suo colpo di genio (per alcuni un finale scontato, non mi trovo d’accordo). Dopo una serie di eventi sempre più deliranti, Michelle riesce a liberarsi. La vediamo tornare nella sua azienda, attraversare un corridoio sterile, entrare in un ufficio apparentemente familiare. Ma dietro una porta si cela un segreto: un passaggio che la conduce in un luogo che non appartiene alla Terra. È lì che capiamo tutto. Michelle non era una metafora: è davvero un’aliena, un emissario di una civiltà che osserva l’umanità da secoli. (5 film da recuperare di Yorgos Lanthimos)
Le viene chiesto se il pianeta meriti di essere salvato. Lei non esita: «No». Un gesto minuscolo, quasi banale, decreta la fine di tutto. Gli esseri umani cessano di vivere, immediatamente, la natura rimane. È un’apocalisse silenziosa, quasi misericordiosa. Ma è davvero giusto? È possibile che l’unico modo per guarire il mondo sia cancellarlo? Nel suo cinismo poetico, Lanthimos non offre soluzioni. Mostra un’umanità che si è distrutta da sola, e un potere superiore che semplicemente tira le somme. Il finale è uno specchio: guardandolo, lo spettatore deve chiedersi se, al posto di Michelle, avrebbe risposto diversamente. Lanthimos amplifica questa idea attraverso il simbolismo delle api, più volte citate nel film. Gli insetti, custodi della vita e dell’equilibrio naturale, sono destinati a scomparire: il loro ciclo vitale si spegne, come quello dell’uomo che, in modo paradossale, muore per mano propria.
Dunque: chi è il vero cattivo di Bugonia?

A questo punto, la domanda è inevitabile: chi è davvero il cattivo in Bugonia? Michelle, che stermina l’umanità in un atto di lucida crudeltà, o Teddy, che rapisce e tortura una donna in nome di un delirio messianico? Forse nessuno dei due. O forse entrambi. Lanthimos non costruisce eroi, ma specchi. Ognuno dei suoi personaggi riflette una parte del nostro tempo: la violenza cieca della paura, l’arroganza del potere, la fede disperata nella cospirazione come unica via di salvezza. Il vero nemico, sembra dirci, non è un’entità esterna ma qualcosa di più intimo: la nostra incapacità di riconoscerci colpevoli. Bugonia è un film che ci chiede: cosa faremmo se potessimo decidere il destino dell’umanità? Saremmo misericordiosi o spietati? E, soprattutto, saremmo davvero in grado di scegliere?
Alla fine, il “male” nel cinema di Lanthimos non è mai un mostro con un volto, ma un virus invisibile che scorre dentro di noi. È l’indifferenza, la distanza, la perdita del contatto con la realtà. In Bugonia, questo virus trova la sua forma definitiva: una specie che si autodistrugge credendo di salvarsi. E forse, dopotutto, è la parabola più realistica che il regista abbia mai raccontato. (Yorgos Lanthimos sta trasformando in oro tutto ciò che tocca)
La regia di Lanthimos: controllo, distacco e bellezza inquietante
In Bugonia la firma di Yorgos Lanthimos è immediatamente riconoscibile in ogni fotogramma. La sua regia non è mai neutra: ogni scelta è funzionale a creare disagio, straniamento e al tempo stesso un’estetica straordinaria. Le inquadrature simmetriche, i movimenti di macchina minimali e quasi chirurgici, la gestione dei silenzi e dei vuoti narrativi, tutto contribuisce a dare al film una sensazione di realtà distorta. La recitazione, come da tradizione del regista, è volutamente misurata e quasi teatrale, conferendo un senso di alienazione. Emma Stone e Jesse Plemons, così come gli altri attori, bilanciano perfettamente naturalezza e freddezza, rendendo credibile una storia al limite del surreale. Ogni espressione, ogni sguardo, è carico di significato, e spesso il non detto vale più delle parole.
Le musiche e il sonoro svolgono un ruolo altrettanto strategico. La colonna sonora, essenziale ma incisiva, accompagna i momenti di tensione senza mai risultare invadente, creando un contrasto tra l’apparente calma e l’orrore sottostante. Gli spazi scelti, dal seminterrato isolato alla sterminata azienda di Michelle, diventano estensioni dei personaggi: luoghi di potere, di prigionia, di controllo. Lanthimos trasforma l’ambientazione in un elemento narrativo, in cui ogni porta, ogni corridoio, ogni stanza comunica
Insomma, con Bugonia, Lanthimos ci ricorda che l’apocalisse più terribile non arriva dall’esterno, ma da ciò che siamo diventati.






