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Fairfax, o come sopravvivere alla cultura hypebeast

E’ da poco stata rilasciata da Prime Video la seconda stagione di Fairfax, serie animata molto ironica che tenta di regalare al pubblico una rappresentazione estremizzata di una delle tante sfumature della cultura giovanile (e non solo) moderna: la cosiddetta hypebeast. La serie ha espresso parecchio potenziale, andando a puntare su un tema decisamente coinvolgente in termini di pubblico, tuttavia, non è stata in grado di ritagliarsi lo spazio che ci si aspettava.

Un dialogo difficile

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Come si può sopravvivere alla cultura hypebeast? Se vi aspettate una risposta a tale domanda da questa serie, rassegnatevi. Fairfax racconta la vita di quattro studenti delle scuole medie, gli appariscenti Dale, una sorta di boy-scout totalmente fuori luogo, Derica, che incarna un po’ quel senso di ambientalismo ipocrita, Benny, che punta ad essere il più grande collezionista di sneakers, e Truman, che aspira a una carriera nel mondo del cinema. In comune hanno l’appartenenza alla stessa società, sono tutti figli del consumo e dell’ostentare, del flexare outfit e gadget all’ultima moda. Ma il problema principale sta nella dichiarazione d’intenti, perché a Fairfax quello che manca è un pubblico di riferimento. La serie è ironica, sì, piena di riferimenti velati alla cultura attuale americana e dei classici easter eggs del caso, ma non riesce mai ad arrivare fino in fondo, a regalare perle memorabili. La scelta di utilizzare quattro ragazzini come protagonisti è piuttosto inevitabile, il problema sta nel non riuscire a rivolgersi concretamente a chi ascolta, perché da una parte un pubblico più adulto non riesce ad immergersi nella narrazione né tanto meno ad instaurare un rapporto, se vogliamo, con nessuno dei personaggi.

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D’altro canto la stessa gioventù può sorridere di fronte all’estremizzazione dei cliché a lei vicini, ma il fatto che non si vada mai a pungere con cattiveria, con un po’ di sano black humor, per intenderci, rende il risultato piuttosto sterile. Certo, ci sono tanti spunti interessanti in Fairfax, ma non si riesce mai a capire quale sia la volontà narrativa, non c’è niente di destabilizzante e, a lungo andare, il risultato potrebbe essere più fastidioso e ripetitivo che altro. Ciò che Fairfax sembra confermare è piuttosto quella difficoltà di dialogo tra nuove e vecchie generazioni: troppo delirante per essere apprezzata da un adulto, troppo dispersiva e inconcludente per appassionare i più giovani. E’ una sorta di metafora che sottolinea un divario culturale in cui non c’è dialogo ma solo tanta diversità tra i due poli.

Fairfax è, a modo suo, un manuale di cultura moderna

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In ogni caso, tornando agli spunti interessanti, bisogna riconoscere che dietro Fairfax c’è un grosso lavoro tra citazionismo e riferimenti alla cultura giovanile attuale. Partendo dalla Latrine fino ad arrivare alla Off Brian, la parodia dei due brand più influenti tra le nuove generazioni e non solo. Ma anche i soliti “cameo” di personaggi famosi, tipici delle sitcom animate americane, e come non citare il filo conduttore che lega il variopinto mondo del consumismo attuale a una versione decisamente meno romantica de La fabbrica di cioccolato, con un Willy Wonka riletto in chiave moderna (anzi, modernissima). Questi sono solo alcuni degli esempi della brillantezza di questo prodotto, dell’enorme potenziale che Fairfax possiede. In sostanza può essere vista semplicemente per quello che è, alla leggera, ovvero una proiezione estremizzata al massimo di uno dei più grandi “disturbi” condivisi tra le nuove generazioni: la FOMO, fear of missing out. E’ tutto molto frettoloso in quel di Fairfax, non c’è tempo da perdere perché il drop del prodotto all’ultimo grido, che sia un capo d’abbigliamento stravagante o un gadget apparentemente (e realmente) inutile, è dietro l’angolo, nonostante ogni volta sia sempre meno duraturo e si faccia molto presto a dimenticarsene. E chiunque, adulti, ragazzi e bambini fanno qualunque cosa pur di accaparrarsi i famosi quindici minuti di gloria, spingendosi oltre ogni razionale limite. Nel complesso l’analisi fatta riguarda l’intera società del consumo, normalizzandola e trattandola sempre come se fosse l’unica via, senza antitesi alcuna. Ma non basta il contorno, perché Fairfax poteva essere molto di più, partendo dalla caratterizzazione dei personaggi, per esempio, che hanno delle personalità talmente superficiali da risultare spesso indistinguibili.

Non c’è un motivo per fare il tifo per loro, e perché mai dovrebbe esserci, si tratta di quattro ragazzini che non vogliono far altro che apparire. Certo, le premesse sono queste e non si può di certo remare contro la massa, ma di sicuro senza un feeling personaggio-spettatore nessuna serie può andare avanti a lungo, non c’è scampo. Forse l’unica voce fuori dal coro realmente evidente è rappresentata da Benny, che nasconde molta insicurezza e un complicato rapporto con la sua famiglia, di origine sudcoreana, il che ci porta ad esplorare anche questo lato della società. Ma, per il resto, bolle poco in pentola. 

Alla fine dei conti però bisogna tenere conto delle giuste considerazioni. Fairfax si pone l’obiettivo di descrivere, nel modo forse più “crudele” e spinto, una società che vive di momenti, che si culla nella superficialità e nel desiderio di far parte di un qualcosa di effimero, per quanto luccicante. E’ la storia della gioventù bruciata dei nostri giorni, ma anche quella di un mondo molto più ampio che comprende gli stessi adulti che ripudiano le nuove generazioni (cosa che comunque è sempre accaduta e sempre accadrà), ma che ci fa capire come, per quanto questi due poli siano così distanti, come accennavamo prima, si muovano all’unisono verso le nuove regole, e chi si ferma è perduto.

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