La terza creatura di Matt Groening, dopo i Simpson e Futurama, probabilmente è quella più complessa e di difficile decifrazione. Nell’evoluzione del linguaggio del disegnatore statunitense assistiamo a un incremento della complessità notevole, a tratti, forse, persino esagerato, come se il fumettista americano si stesse mettendo alla prova per cercare di scoprire fin dove sia in grado di spingersi. Disincanto è un gioiello dell’animazione, questo è fuori discussione. La storia, i personaggi, i dialoghi, il disegno, sono tali da rendere l’ultima fatica di Groening un manifesto alla fantasia. La peculiarità e la cura dei dettagli rendono Disincanto un piacere per gli occhi e per le orecchie. C’è da capire, però, quanto sia grande e prezioso questo gioiello.
Disincanto fa la sua apparizione su Netflix nell’agosto del 2018. I primi dieci episodi costituenti la prima parte della prima stagione sono attesissimi, com’è giusto che sia quando di mezzo c’è Matt Groening. Le aspettative del pubblico sono altissime. Tutti si aspettano un nuovo capolavoro dopo i Simpson e Futurama. La critica e l’opinione pubblica, però, restano al quanto perplesse. Apparentemente sembrano non ritrovarsi, l’impressione è che tutto sia completamente diverso, inaspettato, nuovo. E per questo, in un certo senso, sbagliato. Ancora una volta, probabilmente, l’attesa ha generato un hype motivato ma che viene deluso dal risultato. Possibile? Sì. Disincanto non convince per niente. Addirittura le critiche che le piovono addosso parlano di una serie destinata a fallire perché povera, senza mordente, assolutamente priva di tutto quello che Matt Groening ha saputo dare alle altre due sue creature. Le battute sono scontate, volgari, mancano di arguzia e di quella verve alla quale il pubblico è abituato. Viene additata come una serie per adolescenti poiché solo a quell’età è possibile ridere di certe cose. Insomma, più che un insuccesso una vera e propria delusione il che, forse, è anche peggio.
Ma è davvero così?
Disincanto è qualcosa di assolutamente nuovo per tante ragioni. Innanzitutto perché viene messa in onda su una rete on demand priva di pubblicità che oltretutto permette di vedere e rivedere non soltanto il singolo episodio ma anche il singolo dettaglio. Noi, in Italia, siamo abituati a vedere un episodio dei Simpson senza una stacco pubblicitario, grazie al Cielo. Negli Stati Uniti, invece, non è così. Lo stesso, dunque, sarebbe valso per Disincanto se fosse andato in onda sulla Fox (la rete che manda in onda sia i Simpson che Futurama). Su Netflix Matt Groening e il suo staff hanno avuto il piacere di non doversi occupare di creare uno show che necessitasse di venire interrotto permettendo così di creare un nuovo arco narrativo.
Arco narrativo che, oltretutto, si sviluppa con un fraseggio molto più ad ampio respiro rispetto alle puntate auto-conclusive dei Simpson. Infatti, ed è proprio Matt Groening a dirlo e ribadirlo in diverse interviste, per la prima volta l’autore ha potuto lavorare su un pensiero che non dovesse necessariamente resettarsi ogni volta per ricominciare nella puntata successiva. Questo gli ha dunque permesso di sviluppare i suoi personaggi e il mondo che li circonda più graduale e addirittura più approfondita.
I personaggi di Disincanto, poi, sono la naturale evoluzione (in peggio? in meglio?) di quelli di Futurama. Bean, Elfo e Luci, ciascuno alla sua maniera, sono, almeno inizialmente, una sorta di omaggio a Fry, Leela e Bender. È lo stesso Groening a sottolinearlo in una intervista dichiarando che i tre protagonisti di Futurama sono stati il vaso da cui attingere per non dover creare totalmente da zero dei nuovi personaggi. Rivendicando, comunque, come i tre protagonisti di Disincanto siano generalmente personaggi perfettamente adattabili a ciascun cotesto, moderno come i Simpson, futuristico come Futurama o fantasy come appunto Disincanto.
Proprio la scelta dell’ambientazione, poi, ha permesso a Groening, paradossalmente, di potersi liberare della fantasia e legarsi di più alla realtà intesa come le emozioni umane permettendogli di mettere in mostra, a differenza degli altri due show, situazioni più umane e meno fantastiche. E poco importa se di mezzo ci sia un elfo con le basette, una principessa alcolizzata e un demone personale scambiato da tutti come un gatto. Tutti e tre, in fin dei conti, cercano la maniera più giusta per stare in un mondo dove, bene o male, nessuno sembra interessarsi a loro per quello che realmente sono preferendo ciò che rappresentano, anche se per scopi nobili.
Ultimo ma non meno importante la possibilità di lavorare con Netflix che ha permesso a Matt Greoning di offrire al suo pubblico un lavoro strutturato differentemente rispetto ai suoi precedenti lavori. Come già accennato la creazione di un filo narrativo spalmato su dieci episodi volta per volta, più simile a un lungo film che non una serie o un cartone animato, ma non solo. Netflix, dice Groening, dimostrandosi entusiasta per qualsiasi idea proposta, persino del suo contrario, gli ha offerto l’opportunità di creare qualcosa di assolutamente nuovo non soltanto dal punto di vista della storia ma anche, e soprattutto, dal punto di vista degli argomenti trattati. Qualcosa che non sarebbe potuto mai andare in onda su una rete commerciale come la Fox (che pure gli ha permesso di mandare in onda più di settecento episodi dei Simpson, tanto per dire).
Disincanto è, per sua natura e per ammissione del suo ideatore, un incredibile romanzo di formazione. I tre protagonisti partono in un modo e, episodio dopo episodio, scoprono cose inimmaginabili sul loro conto. Ne attraversano letteralmente di tutti i colori, un po’ come gli eroi dell’Iliade e dell’Odissea, e puntata dopo puntata sembrano sempre di più allontanarsi dal lieto fine fiabesco per arrivare al più concreto, non meno facile e certamente più complesso nosce te ipsum (conosci te stesso) di socratica memoria.
Ed è forse proprio in questa sorta di viaggio alla scoperta di se stessi che Disincanto attraversa qualche difficoltà. La carne messa sul braciere a cuocere, che non è quella di Merkimer, è davvero tanta. Così tanta da far rischiare una sorta di indigestione. Ogni puntata è incredibilmente ricca, suntuosa non solo per la grafica, affidata allo stesso studio di Futurama, ma per i dettagli celati in essa. Dettagli che a volte si fa un po’ fatica a scoprire spontaneamente (e in questo, il poter rivedere e rivedere la singola scena è una manna dal cielo dal momento che ci sono delle perle davvero incredibili!) con l’impressione di perdersi un pezzo davvero importante dello spettacolo.
Disincanto fa dunque il passo più lungo della gamba? Difficile a dirsi. Non è possibile dire che ci sia qualcosa di sbagliato, e cosa, in questo gioiello e fare un paragone con i Simpson o Futurama è assolutamente fuori luogo e controproducente.
Ma tutti e tre gli show di Groening hanno qualcosa in comune, questo è certo. Migliorano col tempo non soltanto nella qualità degli episodi, ma nel venire compresi dal pubblico. Agli esordi, infatti, sia i Simpson che Futurama, soprattutto la prima rispetto alla seconda anche se la seconda ha avuto una vita più difficile e più corta, furono parecchio incompresi. I Simpson addirittura relegati alla seconda visione e considerati difficilmente adatti a un pubblico minore per i disegni e per le argomentazioni trattate.
Disincanto segue dunque le orme dei suoi fratelli maggiori? A quanto pare sì, risultando un po’ difficile da comprendere. La speranza, però, è che questo gioiello, un giorno magari non troppo lontano, venga rispolverato ricevendo un consenso decisamente più unanime e uniforme.