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Crisis in Six Scenes è capace di mettere in crisi ogni fan di Woody Allen?

Crisis in Six Scenes è la discussa serie Amazon Original, disponibile sulla piattaforma streaming dal 2016, nota soprattutto per aver disatteso le alte aspettative che il pubblico e la critica avevano riposto nel primo lavoro seriale di uno dei più grandi registi dei nostri tempi, Woody Allen.

A cinque anni di distanza, ci chiediamo quanto fosse corretta la disamina che, a suo tempo, è stata fatta della serie del regista premio Oscar. Per farlo, però, è necessario analizzare le fondamenta della questione: il rapporto di Woody Allen con la televisione e di come questo si rifletta in Crisis in Six Scenes.

Woody Allen comincia la sua carriera come colonnista del New York Daily Mirror e del New York Post per poi approdare nel mondo televisivo come autore di testi comici, a cui poi è seguita la sua lunga e fiorente carriera da sceneggiatore e regista cinematografico. Fin dagli esordi, però, rende noto il suo avverso rapporto con la televisione e la crisi creativa che per lui rappresenta, derivata dalle inevitabili pressioni del contesto commerciale in cui questa è inserita. Viene quindi a delinearsi una prima spaccatura ideologica, centrale nella sua caratterizzazione come regista, ovvero il conflitto tra Arte (cinema) e Commercio (televisione), che possiamo generalizzare nella critica al capitalismo e la crisi esistenziale degli ambienti intellettuali, temi centrali di tutta la sua nostalgica produzione cinematografica. Questo aspetto traspare in numerosi personaggi dei suoi film, da Mickey, interpretato da egli stesso nel suo film del 1986 Hannah e le sue sorelle, che affermava che “se la carriera televisiva non ti uccide dal punto di vista medico, lo fa senz’altro in quello artistico” fino a Sid, protagonista di Crisis in Six Scenes, che ritiene che “uno show televisivo è di basso livello rispetto a un libro“, e decide dunque di scrivere per la tv solo a seguito di una crisi creativa come autore di romanzi. Non è un mistero, dunque, che per Allen la televisione abbia avuto una brutta influenza sui film, poiché, oltre al contrasto arte e commercio, il binomio tv/cinema demarca anche il conflitto tra città e domesticità (inteso nel ruolo del cinema come spazio fisico della città, in cui entrare per immergersi in un altro mondo, diverso da quello domestico) e, di conseguenza, segna anche il contrasto tra vita sociale e solitudine ( “la tv” afferma nel documentario Meetin WA, “tende a sedare la tua solitudine“).

Con queste premesse, la domanda che dunque sorge spontanea è: potevamo aspettarci qualcosa di diverso da Crisis in Six Scenes ed era realmente giusto farlo?

Crisis in Six Scenes

Il personaggio che interpreta nella serie, lo ricordiamo, è quello di Sid (diminutivo di Sidney Munsinger), un uomo avanti con gli anni con alle spalle una carriera mai decollata da scrittore di romanzi, che è riuscito a guadagnarsi da vivere scrivendo spot pubblicitari. Ci troviamo negli anni ’60, e l’America è impegnata nella guerra del Vietnam, che fa da sfondo all’intera vicenda in sei scene (non puntate). La vita di Sid è caratterizzata dalla serena monotonia borghese, nel tranquillo e ospitale ambiente domestico che divide con sua moglie Kay (Elaine May), fino all’arrivo di un ospite inatteso, Lennie (Miley Cyrus), anarchica ricercata dalla polizia per i suoi atti ribelli di protesta contro la guerra. Ancora una volta Allen mostra sullo schermo lo scontro ideologico generazionale tra chi sceglie l’agio del capitalismo chiudendo un occhio sulle repressioni della guerra (o, chiudendo la tv, come nel caso di Sid, che rifiuta il ruolo informativo del mezzo televisivo ma nel frattempo tenta di scrivere una sceneggiatura per una serie tv e si è guadagnato il pane attraverso le pubblicità) e chi lotta attivamente per i propri ideali anche rischiando la vita come Lennie, che a suon di Marx, Lenin, Mao e comunismo riesce a convincere alla ribellione anche il più borghese club del libro di Kay, e alla fine riesce a convincere anche il più scettico Sid. Non alla ribellione e agli scontri con i “porci poliziotti”, ma a un atto ancor più rivoluzionario per l’ipocondriaco ottatenne: decide, nella scena finale, di abbandonare l’idea di scrivere quella serie tv e di riprovarci con un romanzo, e non fatichiamo a comprenderne il significato simbolico del gesto. Crisis in six scenes rappresenta esattamente la crisi creativa e la crisi ideologica che il regista affronta ogni qual volta è costretto a fronteggiare il mezzo televisivo (o la modernità, che non ha mai abbracciato rimanendo ancorato negli anni 50/60/70 in ogni suo film). Una delle principali critiche mosse allo show, infatti, è stata quella di non aver sfruttato il nuovo format seriale, tant’è che Crisis in Six Scenes non sembrerebbe neanche una serie tv ma un vero e proprio film “travestito” da serie tv (ve ne parlammo in questo vecchio articolo che vi riproponiamo). Ma non è forse questo l’unico modo in cui Woody Allen riesce ad essere Woody Allen?

Che la serie Crisis in Six Scenes non sia un prodotto memorabile resta indubbio, ma chi si aspettava qualcosa di diverso da un regista che non ha mai piegato i suoi ideali per scopi commerciali non avrebbe mai dovuto premere play su Amazon Video.

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