Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Black Rabbit.
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Nel nuovo thriller Netflix “Black Rabbit”, Jason Bateman dirige e interpreta Vince Friedkin, un uomo che torna a casa per rimettere ordine nel caos — e finisce per diventare lui, il caos stesso. Una discesa nei rapporti familiari, nella colpa e nella sopravvivenza, firmata da uno dei registi più lucidi del panorama americano. In Black Rabbit, tutto inizia con un ritorno. Vince Friedkin riappare nella vita del fratello Jake dopo anni di assenza e ferite mai chiuse. Nessuno lo stava aspettando, eppure la sua presenza si fa subito inevitabile. È un uomo che sembra portare addosso il peso di una vita intera di errori: debiti, dipendenze, bugie. Ma dietro quella corazza stanca, c’è un dolore più profondo — un bisogno disperato di essere ancora parte di qualcosa.
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Jason Bateman interpreta Vince con un controllo glaciale e una malinconia costante. Il suo sguardo è quello di chi ha già visto il fondo, anche se nel cuore è presente ancora la forza di un essere umano che vuole riscattarsi e vincere le dure battaglia a cui ha dovuto partecipare nella vita. Non ha la forza per salvarsi, ma neanche la lucidità per lasciarsi morire. In questo, Black Rabbit diventa un ritratto crudele ma autentico di un’umanità che non riesce più a redimersi.
Bateman non costruisce un eroe né un cattivo. Costruisce un uomo che ha finito l’ossigeno, e che cerca aria in una stanza che brucia. L’intera serie ruota attorno alla sua presenza: la camera lo insegue, la storia lo subisce, gli altri personaggi reagiscono al suo ritorno come a un trauma. Non c’è mai pace quando Vince è in scena: questa è la dura verità.
La scrittura del personaggio di Vince Friedkin in Black Rabbit: il disordine come identità

I progetti che coinvolgono Jason Bateman sono, spesso, esperimenti sul controllo. Da Ozark a The Outsider, i suoi personaggi cercano di mantenere il dominio su un mondo che sfugge dalle mani. In Black Rabbit, quell’illusione cade completamente. Vince non controlla nulla, nemmeno se stesso. È il caos con la voce roca e il passo trascinato di chi ha smesso di fingere, di chi ha smesso di indossare la maschera che tutti indossiamo ogni giorno.
La scrittura di Vince è precisa e brutale: il personaggio non viene giustificato né redento. Ogni dialogo che pronuncia è una cicatrice aperta, ogni gesto è un modo per ferirsi di nuovo, come se passo dopo passo il peso della colpa si facesse sempre più pesante.
Il suo arco narrativo non è quello della crescita, ma della resa, della decadenza. Vince non migliora, non impara, non chiede perdono. E proprio in questa immobilità psicologica la serie trova il suo realismo più disturbante, facendone uno dei titoli più interessanti dell’ultimo periodo.
Ciò che Black Rabbit riesce a fare — e che molte serie evitano per paura di perdere pubblico — è mostrare un protagonista che non viene salvato dalla scrittura. Vince non ha una “lezione morale” da offrire. È uno specchio opaco, dove lo spettatore riconosce solo le proprie contraddizioni, il lato oscuro e inevitabilmente negativo dell’essere umano.
Il personaggio vive di tensione con Jake, il fratello maggiore interpretato da Jude Law: due uomini legati da una colpa familiare che non sanno più come nominare. La loro relazione è una guerra senza vincitori, fatta di sguardi, minacce e silenzi. Jake cerca la stabilità, Vince porta la verità. E quando la verità arriva, il mondo crolla.
La regia di Jason Bateman: precisione, lentezza e nervi scoperti
In Black Rabbit, Bateman firma anche la regia dei primi episodi, e si vede. La macchina da presa è sempre dove deve essere: troppo vicina quando il personaggio ha bisogno di spazio, troppo lontana quando implora comprensione. È un linguaggio visivo che amplifica l’asfissia, un modo per far sentire il pubblico dentro la testa di Vince.
Luce sporca, camere immobili, tagli secchi. Bateman non cerca l’estetica del noir, ma la fisicità del dramma. Le inquadrature non “mostrano” la tensione: la costruiscono. Il suo stile è chirurgico e silenzioso. Il suono di un bicchiere, una pausa prima di una frase, una porta che si chiude lentamente — tutto diventa un segno di nervosismo.
Il regista alterna lunghi piani sequenza a dettagli ravvicinati, come se stesse spiando il pensiero stesso dei personaggi. L’effetto è ipnotico e scomodo: non si guarda Black Rabbit per svago, ma per sopportazione. Ogni episodio pesa. Ogni scena lascia il segno.
La fotografia lavora sui toni del rame e del nero, avvolgendo la serie in un senso costante di calore tossico. È come se ogni stanza fosse una trappola.
E in quella trappola, Vince respira a fatica, così come lo spettatore.
L’evoluzione del personaggio: dal fratello di sangue a inevitabile caos

Nel corso della serie, Vince diventa il motore invisibile della distruzione. Tutto ciò che tocca si spezza: non perché lo voglia, ma perché non sa fare altro. La sua parabola non è quella di un uomo cattivo, ma di un uomo che ha perso tutto, incapace di ricominciare, di ricostruirsi.
Quando il suo passato emerge — debiti, violenze, segreti familiari — Black Rabbit smette di essere solo un thriller e diventa un racconto sull’inevitabilità e la fragilità della vita umana. Vince non fugge dal passato, lo trascina con sé come un cadavere.
Il momento più forte arriva quando la colpa si trasforma in eredità: Vince non è solo un uomo distrutto, ma anche un fratello che infetta chi prova a salvarlo. Il rapporto con Jake, fondato su un affetto mai detto, esplode nel finale in una scena di una brutalità emotiva rara. La forza del personaggio sta proprio nell’ambiguità. Non è vittima né carnefice, ma un confine sfocato tra le due cose. E qui Bateman lavora da autore vero: non difende Vince, ma lo osserva mentre crolla. Lo mette davanti a sé, e lo lascia marcire sotto la luce di un riflettore.
Black Rabbit come opera morale: il peccato della normalità
La grandezza di Black Rabbit è quella di non nascondersi dietro la trama. Non è una serie di colpi di scena, ma di conseguenze. Ogni episodio mostra cosa succede quando la morale si sgretola, non per un grande gesto, ma per abitudine. Il locale gestito dai due fratelli diventa un microcosmo dell’America post-pandemica: un luogo dove si sopravvive, ma non si vive più.
Vince è l’esempio perfetto di questa decomposizione. Non è un mostro, ma un uomo normale che ha smesso di provarci. È la rappresentazione di quella rassegnazione che la società preferisce non guardare. In questo senso, Black Rabbit dialoga con la tradizione letteraria americana del fallimento morale: da Arthur Miller a Cormac McCarthy, passando per i personaggi di Breaking Bad o True Detective. Tutti uomini che credevano di avere il controllo e lo perdono lentamente, senza accorgersene.
La scrittura di Bateman e del team creativo evita il sentimentalismo e si concentra sulla nudità psicologica. Ogni scena è costruita per spogliare Vince di un pezzo di dignità. Alla fine, resta solo un uomo stanco, incapace di distinguere tra colpa e destino.
Vince Friedkin e la firma di Bateman: il controllo del disastro
Con Black Rabbit, Jason Bateman firma la sua opera più intima e complessa. Dopo anni di ruoli da uomo razionale e calcolatore, sceglie di raccontare l’opposto: un personaggio irrazionale, impulsivo, fallito. Ma lo fa con la freddezza di chi ha studiato ogni respiro di questa figura, ogni possibile sfumatura.
Il lavoro sul corpo è impressionante: spalle curve, andatura irregolare, mani che tremano, sguardo assente, apatico e spesso sconfitto. Bateman recita come se stesse contenendo qualcosa di ingestibile, e la tensione diventa il suo linguaggio. È una performance fatta di sottrazione, in cui ogni silenzio pesa più di una battuta.
La regia riflette questo approccio. Non c’è compiacimento estetico, solo precisione chirurgica. Le scene tra i due fratelli sembrano duelli emotivi: la camera non prende mai posizione, resta ferma a guardare. È come se Bateman volesse dirci che la tragedia non ha bisogno di musica o di pathos: basta lasciarla accadere. Far scorrere gli eventi così come devono andare.
L’ineluttabile pesantezza del senso di colpa

Black Rabbit arricchisce il catalogo di Netflix e mette in mostra una volta ancora il talento registico di Jason Bateman. Vince Friedkin è un personaggio scritto per disturbare, non per piacere. È la somma dei fallimenti, delle bugie e delle paure che tutti vorremmo dimenticare.
La serie non chiede empatia, ma attenzione. Non offre catarsi, ma riconoscimento. Black Rabbit ha il coraggio di raccontare un uomo che perde tutto e non trova un motivo per rialzarsi, nonostante ci provi.
Bateman costruisce così il suo lavoro più disturbante: un thriller che parla di famiglia, ma in realtà parla di sopravvivenza.
E in fondo, guardando Vince Friedkin sprofondare, l’impressione è che Black Rabbit non sia solo una storia su un uomo in rovina — ma su tutti noi, quando fingiamo di avere ancora il controllo che ormai ci è sfuggito ormai da troppo.


