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Behind the Series – Gli anni Settanta di sangue di The Serpent

Behind The Series è la rubrica di Hall of Series in cui vi raccontiamo tutto quel che c’è dietro le nostre serie tv preferite. Sul piano tecnico, registico, intimistico, talvolta filosofico. Stavolta in Behind The Series si parla di The Serpent, la serie Netflix che racconta la storia vera di Charles Sobhraj, serial killer che negli anni Settanta attirava i turisti che percorrevano la hippie trail, il viaggio via terra tra Europa e Asia, li truffava, li drogava e infine li uccideva per appropriarsi della loro identità.

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Senza una valigia io e te
Siamo partiti un giovedì
Nei nostri occhi c’era un sì
Pioggia di farfalle intorno a noi
Mi davi la tua gioventù
Nessuno mi ha fermato più
Sai cos’è l’isola di Wight?
È per noi l’isola di chi
Ha negli occhi il blu della gioventù
Di chi canta hippi hippi pi

L’isola di Wight, Dik Dik, 1970

Tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta migliaia di giovani provenienti da tutto il mondo si misero in viaggio verso un’unica destinazione: la ricerca di un mondo migliore. Per alcuni di loro il viaggio si interruppe tra le braccia della morte, o meglio tra le spire di The Serpent: un’entità malefica con le fattezze di Charles Sobhraj, serial killer di origine indiano-vietnamita che fece la sua fortuna truffando e uccidendo i turisti che incrociavano il suo cammino.

Della scellerata vita di Charles Sobhraj, raccontata nella miniserie Netflix The Serpent (qui trovate la nostra recensione), vi abbiamo parlato in questo articolo. Quello di cui vorremmo occuparci è il contesto storico che circonda il fenomeno delle “migrazioni hippie” che in particolare negli anni della controcultura hanno interessato l’Oriente e hanno dato origine al mito del viaggio alla scoperta della spiritualità, di uno stile di vita più semplice e in contrasto con l’opulenza e la corruzione occidentale.

Un’utopia in cui i ragazzi con lo zaino in spalla che si sono imbattuti in Sobhraj credevano fermamente: un sistema di valori che si sono scontrati contro il materialismo, il cinismo e la sete di sangue. Tutti questi valori sono racchiusi in un recipiente storico che trabocca di ingredienti in contrasto tra loro: gli anni Settanta sono stati sia il periodo della controcultura e dell’utopia hippie, sia lo scenario di agghiaccianti delitti, contrasti sociali e insoddisfazione che hanno condotto l’età felice dei figli dei fiori a una conclusione amara.

Hippie: un sogno che nasce nel sangue

american horror story
Charles Manson nella serie Aquarius, interpretato da Gethin Anthony

Gli anni Settanta hanno rappresentato il culmine della controcultura: sono gli anni in cui il fermento culturale cominciato con il movimento della Beat Generation trova uno sfogo politico, sociale e culturale. L’ideale di “giovani contro”, cominciato con il fremito delle chitarre rock ‘n’ roll e con i versi ribelli e anticonformisti dei poeti beat, si ritaglia negli anni Sessanta uno spazio autorevole all’interno del panorama culturale.

I “capelloni” che animano la cultura soprattutto musicale degli anni Sessanta fanno proprie le istanze della generazione appena precedente ma li declinano in una chiave più pacifista. Non si è più “ribelli senza una causa”, per citare un famoso film manifesto della Beat Generation: la generazione che nasce nel dopoguerra ha visto i propri genitori alle prese con i fantasmi del conflitto mondiale e non cerca rivalsa o vendetta. A maggior ragione quando vedrà i suoi stessi coetanei mandati a morire lontano, in quegli stessi paesi verso i quali sente una curiosità e un interesse così forte. Non sente neanche la spinta consumistica che nei primi anni Sessanta ha popolato le case degli americani e degli europei di frigoriferi e televisori e i vialetti di casa di automobili di fresca fabbricazione.

La generazione che si affaccia alla vita adulta nella metà degli anni Sessanta cerca la ricchezza in un sistema di valori che includa tutti e abbraccia le culture più diverse, in nome dell’unità tra i popoli, del raggiungimenti di pari diritti e del superamento dei falsi valori del consumismo e del capitalismo. Il mito del viaggio in Oriente, che affonda le radici secoli addietro, torna prepotente tra i giovani come sprone a cercare “l’altro”: il diverso diventa finalmente esempio e suscita curiosità, non smania di conquista e dominio.

Il viaggio in India, soprattutto, diventa un must per chiunque voglia sperimentare nell’arte, nella cultura e naturalmente nella musica: è sotto il segno dell’India che nel 1967 nascerà l’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, che mescola le sonorità brit con cui la band si era fatta conoscere in tutto il mondo con la cultura musicale indiana, insegnata soprattutto a George Harrison dal mitico suonatore di sitar Ravi Shankar.

L’incontro tra Oriente e Occidente determina uno scambio che arricchisce la cultura europea e americana di elementi spirituali, antropologici, culturali e sociali. Nascono comuni, alcune improntate alla sperimentazione di uno stile di vita condiviso e basato sull’essenzialità e l’auto sostentamento, altre guidate e ispirate da sedicenti guru. In questo fermento che mescola spirito e carne e che agita gli anni Sessanta, si fa strada la figura che tingerà il sogno hippie di sangue, e che ha un inaspettato legame con lo spietato serial killer soprannominato The Serpent.

Nell’estate del 1969, una serie di orrendi delitti sconvolge l’alta società di Los Angeles: gli eccidi Tate-La Bianca riempiono le prime pagine dei giornali per l’efferatezza della loro esecuzione e perché pare proprio che dietro ci sia la mano del diavolo. In realtà il mandante di questi delitti è un delinquente comune diventato leader di una comunità di ragazzi di buona famiglia, scappati di casa e facilmente plagiabili, Charles Manson. Manson, come raccontato anche in Mindhunter, è un prodotto della società del suo tempo: uno scarto, un rifiuto umano che trova nell’associazione con soggetti manipolabili e fragili la chiave per ottenere, se non il riscatto, almeno una vendetta.

Questo elemento di rivalsa sociale accomuna Charles Manson a Charles Sobhraj: o almeno a quello che ci viene mostrato in The Serpent. L’inclinazione criminale di Sobhraj nasce da un rifiuto che il ragazzo percepisce nei suoi confronti da parte della sua stessa famiglia (che gli preferisce i figli avuti con il secondo marito della madre, un francese che non lo adotterà mai) ma anche da parte della società occidentale, che lo esclude per via delle sue origini miste. L’odio sociale del giovane si indirizza verso coloro che ritiene, forse senza nemmeno avere i mezzi per riconoscerne i motivi, i veri responsabili della sua condizione: i ricchi occidentali che, dopo aver saccheggiato l’Oriente, ora vengono lì in vacanza, giocando a fare i poveri.

Lui, che la povertà e la fame le ha conosciute davvero, non può sopportare questi giovani biondi, con la barba lunga e i vestiti colorati, che girano per le strade di Bangkok e Katmandu a piedi nudi e sembrano non avere paura di niente. L’odio sociale, che aveva già tinto di sangue l’utopia hippie, segnando la fine prematura del sogno di pace e amore, diventa il manifesto della vita e dell’opera criminale di The Serpent. Un filo rosso che lega gli anni Sessanta, il periodo dell’innocenza per la controcultura giovanile, ai più sanguinosi, contraddittori e violenti anni Settanta.

Un sentiero di pace e amore: la rotta hippie

Due ragazze per le strade di Katmandu nel 1969. Foto di Bruce Thomas.

Tra gli anni Sessanta e Settanta, viaggiare non era per tutti. Se il tuo sogno era scoprire il mondo, pagando poco e facendo la vita che fanno le popolazioni (spesso poverissime) che incontrerai per la tua strada, la soluzione era una: spostarsi via terra. Il viaggio a piedi, che riecheggia i pellegrinaggi medievali verso Gerusalemme o Roma, in autobus o pulmini noleggiati a un prezzo accessibile era il mezzo prediletto dai giovani che si rispecchiavano nella controcultura hippie, che predicava una vita frugale, semplice, distaccata dai beni materiali e sempre in ascolto dell’altro.

In The Serpent incontriamo molti di questi giovani idealisti, che percorrevano la cosiddetta “rotta hippie”, che partiva dal vecchio continente, solitamente Londra, o da Istanbul, primo avamposto d’Oriente, e proseguiva per tutta l’Asia. Tappa obbligata del viaggio era naturalmente l’India, culla spirituale per eccellenza e ispiratrice di molte ramificazioni culturali, spirituali e musicali della controcultura hippie. Alle porte dell’India il percorso si divideva: alcuni proseguivano fino a Goa, altri si spingevano ancora oltre arrivando fino a Bangkok.

Tappe obbligate del viaggio erano le cosiddette tre K: Kaboul in Afghanistan, Kathmandu in Nepal e Kuta (a Bali), in Indonesia. L’esperienza lisergica era parte integrante del viaggio, che attraversava obbligatoriamente paesi come Afghanistan, Iran e Pakistan, principali produttori di hashish e marijuana. Dopo i primi anni in cui alcuni intrepidi viaggiatori aprirono la via, il fenomeno della Hippie Trail divenne quasi un must per ogni giovane che si rispecchiava nei valori della controcultura.

La rotta hippie divenne un viaggio organizzato (vediamo anche in The Serpent bus sgangherati e colorati che trasportano ragazzi entusiasti su e giù dalle montagne del Nepal o dell’India), con il Magic Bus che da Londra prometteva di arrivare fino a Nuova Delhi con soli 45 dollari e i numerosi ostelli che le popolazioni locali organizzarono per accogliere i giovani viaggiatori.

Turisti che non venivano guardati con odio o sospetto, ma che diventavano un elemento del paesaggio urbano soprattutto per la loro smania di integrarsi con la popolazione locale: vestendo i loro stessi abiti, tentando di parlare la stessa lingua e consumando lo stesso cibo e le stesse droghe. Insomma, abbracciando la loro cultura: Theresa Knowlton, una delle prime vittime di The Serpent nella serie, viene mostrata come una ragazza divisa tra una forte spinta materialista e promiscua e un’altra parte di sé che la porta a ricercare la spiritualità e la rinuncia totale a beni materiali e piaceri.

E sono proprio i beni materiali a spingere nelle spire di Charles Sobhraj Henk Bintanja e Cornelia Hemker (nella serie Willem Bloem e Helena Dekker), le vittime olandesi da cui partirà l’indagine del testardo e incrollabile Herman Knippenberg. I loro nomi sono stati cambiati dagli sceneggiatori per rispettare la loro identità e la loro storia: noi non sappiamo esattamente cosa accadde a quei giovani olandesi così innamorati, possiamo solo supporlo da ciò che la serie ci mostra. La ricerca di un anello per l’amata Helena da parte dell’innamoratissimo Willem lo conduce dritto tra le braccia di Sobhraj, che usa la sua attività di commerciante di gemme per nascondere la sua attitudine omicida.

Un vezzo, un dono d’amore all’amata dopo un lungo viaggio, come promessa di un altro e ben più importante viaggio da compiere, quello di una vita insieme, diventa l’esca con cui il serpente attira i giovani nella sua tana, da cui usciranno solo per essere barbaramente uccisi. I numerosi salti temporali in The Serpent ci mostrano come l’odio sociale di Charles Sobhraj nasca da un’infanzia trascorsa come emarginato, ma si sia fortificata proprio in virtù dell’incontro con i turisti che in quegli anni hanno iniziato a trasformare il paradiso incontaminato, culla per lo spirito, nel parco giochi per le loro vacanze alla moda. Quando lo vediamo compiere il primo colpo con la sua partner, Marie-Andreé Leclerc (già rinominata Monique: torneremo sull’ossessione di Sobhraj per i nomi), le premesse sono di stampo etnico.

Quei due ricchi bastardi ci osservano: cosa vedono secondo te? Vedono un meticcio con una bella ragazza bianca. Ci giudicano. Mostriamo loro di cosa siamo capaci noi emarginati, quando un ricco ha la malaugurata idea di porgerci il fianco. E così inizia la missione criminale di Sobhraj, odio e vendetta sociale che non distingue tra ricchi boriosi e ingenui ragazzi coi piedi nudi.

I nomi, dicevamo: in The Serpent il nome Charles Sobhraj viene pronunciato ormai a più di metà serie. Per intere puntate noi conosciamo questo sfuggente individuo come Alain Gautier, nome che gli conferisce un certo prestigio nel suo lavoro di commerciante di gemme e che ha il doppio compito di distogliere l’attenzione dei clienti dai suoi tratti orientali e di rivalersi sul nuovo marito della madre, il francese che non volle adottarlo. Il battesimo con un nuovo nome serve a Sobhraj per moltiplicare la sua personalità in funzione di chi deve essere di volta in volta: il meticcio rifiutato dagli occidentali, il prestigioso trafficante di gemme, i ragazzi a cui ruba l’identità per poter viaggiare indisturbato.

Anche la sua compagna subisce lo sbattezzo e la rinascita a nuova vita attraverso il cambio di nome: Marie-Andreé, la timida canadese tutta casa e chiesa, diventa Monique, la ladra tanto raffinata quanto fredda e indifferente alle implorazioni delle loro vittime. Ma solo il serpente può cambiare pelle, rimanendo sempre uguale a se stesso: Marie-Andreé non reggerà il peso della sua coscienza e tornerà a essere ciò che è stata fin dall’inizio, un topolino tra le fauci del serpente.

Anche le vittime subiscono l’oltraggio della perdita dell’identità: cancellare i loro corpi bruciandoli equivale a renderli non più persone, tanto quanto appropriarsi dei loro documenti li priva del nome, che è ciò che ci definisce primariamente agli occhi del mondo.

L’utopia spirituale e anti materialistica dei giovani hippie, in viaggio verso un Oriente magico, viene spezzata prima dagli omicidi di The Serpent e poi dallo scoppio della guerra in Afghanistan, verso la fine degli anni Settanta.

La rotta hippie perde la sua connotazione di sentiero dorato, cosparso dei petali delle collane votive indiane e odoroso di incenso, per diventare una spianata costellata di mine, soldati, lotte ideologiche e politiche che trasformeranno paesi prima aperti e tolleranti in stati chiusi, sospettosi e conservatori. Ora la via percorsa per quasi un decennio è chiusa, piena di insidie e ormai priva della sua magia: ha vinto il capitalismo, che coi i suoi voli low cost e i suoi alberghi a cinque stelle rende facile viaggiare e distoglie gli occhi dei turisti occidentali dalla miseria ma anche dal fascino che ancora persiste e anima quei luoghi.

Hanno vinto gli estremismi religiosi, che insieme alle droghe hanno bandito l’adorazione di ciò che loro consideravano idoli: le gloriose statue dei Buddha di Bamiyan, che per 1800 anni hanno osservato turisti e pellegrini di tutto il mondo, sono state mutilate dai talebani. Ha vinto la sete di sangue che caratterizzerà l’altra faccia degli anni Settanta e la stessa controcultura, non più così pacifica e non violenta.

Il serpente e il cane

Mindhunter
David Berkowitz nella serie Mindhunter, interpretato da Oliver Cooper

Sam ama bere sangue. “Vai fuori e uccidi” comanda padre Sam. 

Lettera del Figlio di Sam alla polizia di New York, 1977

Tra il 1976 e il 1977, mentre in Oriente imperversavano gli omicidi e le truffe ai danni dei turisti da parte di The Serpent, in Occidente un serial killer apparentemente molto diverso dal multiforme genio della fuga indiano-vietnamita si dà un gran da fare per seminare il terrore nella città di New York. Le sue vittime sono, come nel caso di Charles Sobhraj, giovani innamorati che il killer sorprende in auto, mentre sono appartati o semplicemente fermi all’angolo della strada, e fredda con un colpo di pistola. Scrive anche deliranti lettere alla polizia, in cui farnetica di un’entità sovrannaturale, Sam, che si manifesta a lui nella forma di un cane e che gli ordina di uccidere.

Il caso del Figlio di Sam, alias David Berkowitz, il principale responsabile dei crimini, è affrontato molto scrupolosamente in Mindhunter, in cui conosciamo il lato calcolatore e lucido del killer, e in una docuserie Netflix di fresca uscita, The Sons of Sam. In questa miniserie la tesi è semplice e inquietante: e se non fosse stato il solo Berkowitz a compiere i crimini per i quali è stato condannato? E se esistesse una vera e propria rete di assassini, affiliati attraverso una setta che ricorda vagamente il delirio mistico/politico di Manson, i cui capi non sono mai stati individuati?

E perché, ma questa è una nostra teoria, le vittime del Figlio di Sam, come quelle di The Serpent, sono giovani spensierati?

A metà anni Settanta l’utopia dei figli dei fiori colorata e un po’ da cartolina che ci è stata tramandata era ormai al tramonto. Il movimento della controcultura si era ibridato sempre di più con la politica e l’attivismo, anche con la corrente più militante e violenta. La nascita del gruppo dei Weather Underground o Weathermen, che predicavano la lotta al capitalismo e all’imperialismo americano e l’avvento di una società priva di classi e disseminavano le città di bombe, tingeva di sangue il movimento dei pacifisti che predicava “mettete fiori nei vostri cannoni”.

La contrapposizione tra giovani non violenti e giovani bombaroli, spesso accomunati dalle stesse idee ma radicalmente diversi per strategia e realizzazione, crea una frattura di stampo generazionale nella società. I genitori guardano con apprensione la crescente politicizzazione dei loro figli (leggete Pastorale Americana di Philip Roth per avere un doloroso quadro delle conseguenze), ma anche gli stessi ragazzi rimasti fuori da queste dinamiche sociali finiscono preda di uno smarrimento e di una mancanza di riconoscimento in alcun valore che degenerano nella violenza.

Il Figlio di Sam e The Serpent sono giovani che non si riconoscono nei valori e nella spinta vitale dei loro coetanei e che trovano nella cancellazione della loro allegria e delle loro identità una risposta al loro vuoto interiore.

I favolosi anni Sessanta, in cui tutto sembrava possibile, lasciano spazio ai più bui e contraddittori anni Settanta, nei quali l’utopia hippie si intreccia in un nodo indistricabile con la violenza di chi la contrastava e con le sue stesse derive sanguinarie. A cadere lungo la via sono giovani innocenti, colpevoli solo di aver creduto davvero in un mondo migliore e di aver perso la vita nel tentativo di raggiungere la pace interiore: trovando, invece, il tormentato sonno di una morte violenta.

Oh compassionevoli, questa persona sta passando da questo mondo al mondo dell’aldilà. Sta morendo senza poter scegliere. Non ha amici, soffre profondamente. Non ha rifugi, non ha protettori, non ha alleati. La luce di questo mondo si è spenta. Entrerà in un grande campo di battaglia, sarà afferrata da possenti forze maligne. Sta entrando in un’altra esistenza: è giunto il momento, ma lei deve camminare da sola. Senza un amico”.

Il libro tibetano dei morti, The Serpent 1×01.

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