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Band of Brothers bisogna accoglierla con lo stesso spirito di Game of Thrones

Sono dieci gli anni che separano la prima puntata di Band of Brothers (2001) da quella di Game of Thrones (2011). Un’eternità in ambito televisivo, soprattutto in quella che viene considerata come la terza Golden Age della televisione americana, iniziata, secondo alcuni studiosi, alla fine degli anni Novanta con The West Wing (NBC, Aaron Sorkin, 1999-2006) ma soprattutto con I Soprano (HBO, David Chase, 1999-2007). Non è certamente questo l’articolo per parlare della storia della televisione e dei suoi, molto spesso, stimolanti e meravigliosi prodotti. Ma è certamente interessante notare che I Soprano, Band of Brothers e Game of Thrones hanno in comune l’emittente televisiva che li ha trasmessi: la HBO, il canale a pagamento via cavo più vecchio attualmente trasmittente della televisione americana.
La HBO, Home Box Office, fondata nel 1972 dal multimiliardario Charles F. Dolan è una rete di intrattenimento che trasmette principalmente film distribuiti nelle sale, in collaborazione con le principali case cinematografiche, e serie televisive di produzione propria. È stata la prima rete a pagamento sul mercato statunitense aprendo, di fatto, le porte alla moderna televisione on demand.

La HBO nel corso degli anni è diventata sinonimo di qualità, una qualità che ha fruttato una quantità di premi televisivi straordinaria, in particolar modo i prestigiosissimi Emmy e Golden Globe. Commedie, drammi, mini e maxi serie, il catalogo vincente dalla HBO è incredibilmente vasto e, volendo produrre un elenco per fare degli esempi ne verrebbero dimenticate sicuramente diverse.
Da questa lista, però, potremmo estrapolarne due le quali, all’apparenza, non hanno nulla in comune: Band of Brothers e Game of Thrones. La prima è una miniserie di dieci puntate della durata di circa un’ora ciascuna, basata sul saggio storico “Band of Brothers: E Company, 506th Regiment, 101st Airborne from Normandy to Hitler’s Eagle’s Nest” di Stephan Ambrose; la seconda, invece, è composta da settantatré episodi raccolti in otto stagioni ed è l’adattamento, più o meno libero, del ciclo di romanzi “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R. R. Martin. Quindi, mentre la prima racconta le imprese reali di una compagnia di paracadutisti americani, dall’addestramento alla conquista del Nido delle Aquile di Hitler, la seconda racconta, invece, di mondi e molti personaggi del tutto immaginari, in pieno stile fantasy.

Sia Band of Brothers che Game of Thrones hanno in comune due dettagli interessanti: la grande quantità di personaggi e la maniera, caotica, di trattarli. Entrambe le serie, infatti, iniziano subito mettendo sul piatto il maggior numero di personaggi possibile passando da uno all’altro senza soluzione di continuità e impedendo, al telespettatore, di riconoscerli quasi. Soprattutto i membri della compagnia Easy. Un particolare che, dopo dieci ore di visione, può risultare fastidioso. Eppure, con un attimo di riflessione, un particolare decisamente perfetto per il genere di argomento trattato: la guerra, attraverso la quale giunge la morte.

Band of Brothers è considerato dalla critica un capolavoro. Sopratutto uno di quegli spettacoli capaci di cambiare la maniera di fare la televisione. La Seconda Guerra Mondiale è un argomento molto caro agli autori cine-televisivi americani e molti film, creati in un passato più o meno recente, hanno spostato verso l’alto l’asticella della qualità. Da From Here to Eternity a Salvate il Soldato Ryan, diretto da Steven Spielberg e interpretato da Tom Hanks che di Band of Brothers sono produttori esecutivi, la qualità dei film fatti con determinati criteri artistici ha saputo regalare intensi, nostalgici, patriottici ed emozionanti capolavori. Con Band of Brothers questo genere di successo si è spostato in televisione.

Con una spesa di oltre 120 milioni di dollari Fratelli al fronte (questo il titolo in italiano) è la miniserie più costosa mai prodotta finora. L’elenco delle spese per creare un prodotto eccezionale va dall’affitto dei grandi capannoni per ricreare isolati di cittadine europee al tizio pagato per preparare le sigarette da usare durante le riprese. È chiaro che l’attenzione al dettaglio ha avuto la sua importanza e quindi anche quel senso di confusione che parte della critica e del pubblico hanno notato e sottolineato, cioè la sensazione di non riconoscere i personaggi, sia chiaramente voluto, desiderato. Perché è vero che sembrano assomigliarsi un po’ tutti ma è altrettanto vero che il tutto è creato ad arte.

Band of Brothers parla di uomini, per lo più volontari, decisi a lasciare casa e affetti per diventare parte della Storia. Uomini che, dalle remote campagne degli stati del sud o dalle vie di un quartiere popolare newyorkese, un giorno decidono di arruolarsi con l’idea di fare il proprio dovere per salvare il mondo dalla ferocia della tirannia nazista che si espande in Europa come un cancro all’ultimo stadio. Uomini privi di alcuna pratica militare che vengono addestrati da altri uomini a lanciarsi da aerei nel buio della notte sotto un bombardamento incessante. Uomini. Alti, bassi, magri, robusti, con i piedi piatti o i capelli rossi. Tutti con la loro uniforme, i loro anfibi e il loro elmetto. Tutti sporchi e sudati allo stesso modo. Uomini che condividono la stessa camerata e la stessa latrina e mangiano dalle gamelle la stessa sbobba.

Dalla confusione del campo d’addestramento in Georgia alla tragedia del salto oltre le linee nemiche le facce dei soldati si mescolano anche grazie al ritmo delle riprese che tiene costantemente alta la tensione. Si distinguono i nomi ma non i volti. E quando lo spettatore cerca di collegare una faccia a un cognome spesso si ritrova a dover ricominciare da capo il gioco dell’accoppiata. Qualche aiuto potrebbe provenire dai volti, anziani, e dalle voci, stanche, dei veri membri della compagnia Easy presenti all’inizio di ogni puntata. Ma la realtà dei fatti è che si è condannati a guardare Band of Brothers con la speranza, irrealizzabile, che nessuno muoia. Perché sarebbe dura rendersi conto che non si è in grado di omaggiare il caduto come dovrebbe.

Al di là della retorica spiccia, della quale, per altro, Band of Brothers è praticamente priva, il senso di disorientamento permette allo spettatore di non affezionarsi troppo ai protagonisti sullo schermo. Non ce n’è il tempo perché tutto scorre veloce e le azioni di guerra, quelle più famose come l’Operazione Market Garden o l’assedio di Bastogne, scandiscono la vita di uomini decisi più che mai a compiere il loro dovere. Non più verso la propria patria o per liberare il mondo dal nazismo ma per sostenere e difendere il proprio fratello d’armi. Esattamente così. Ciò che avviene sul campo di battaglia è una faccenda che non riguarda lo spettatore che assiste impotente sentendosi quasi estraneo. Gli scontri a fuoco, i ferimenti e la morte, lo spettatore li vive con un investimento emotivo, nei confronti dei soldati, decisamente basso rispetto, per esempio, a Salvate il Soldato Ryan.
La scelta è voluta e non un errore, come azzardano alcuni critici. Lo spettatore, infatti, ha bisogno di aggrapparsi a qualcuno nella storia, cerca un appiglio nella drammaticità dei fatti narrati. Ma non ne trova. Non ci sono maniglie da afferrare per poterne uscire indenni. Lo spettatore vive e, in senso figurato, muore con gli uomini della Compagnia Easy. E qualcuno, dalle retrovie, prenderà il suo posto per rimpolpare le fila. È la guerra.

Sì, la guerra. I tre lunghi, infernali anni narrati in dieci puntate parlano di questo. Le speranze di tornare a casa, i piedi gelati, il rancio che non arriva mai sono tutti dettagli che servono a parlare della guerra e di niente altro. Delle storie dei soldati si sa poco e poco deve interessare, in effetti. La mancanza di dettagli è utile alla narrazione che deve scorrere, impietosa, in avanti. Com’è la vita in battaglia. Non c’è il tempo di pensare al passato e nemmeno al futuro. Occorre stare nel qui e ora, attimo dopo attimo, contando sull’addestramento e una grande dose di fortuna.

Non è un caso, perciò, che tra la moltitudine di uomini presenti in Band of Brothers (circa duemila attori) spicchino fortemente il Tenente Herbert M. Sobel, interpretato da David Schwimmer, all’epoca in pausa da Friends, e il Tenente Richard Winters, interpretato da Damian Lewis.
I due risaltano non tanto per il fatto di essere degli ufficiali e nemmeno per i loro comportamenti così diametralmente opposti che portano lo spettatore a parteggiare per uno e schernire l’altro. Sobel e Winters, due facce della stessa medaglia, sono tra i pochi a essere riconoscibili perché sanno cosa sia la guerra. Pur non avendone una testimonianza diretta non giocano mai a fare gli spacconi vivendo nella perenne ansia che produce l’essere al comando di uomini da portare incontro alla morte. I destini dei due ufficiali sono segnati. Le loro capacità ne faranno la fortuna in combattimento o tra le scartoffie, per altro comunque utili.

Così, la trattazione dei personaggi in Band of Brothers e Game of Thrones ha dei punti in comune. La difficoltà di inquadrare questo o quel personaggio, nella prima, resiste fino alla fine mentre nella seconda, con lo scorrere del tempo, diventa meno complessa. In entrambi i casi, però, lo smarrimento è funzionale alla storia e un ottimo espediente narrativo che impreziosisce entrambi i prodotti.

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