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La città incantata – Il sottile velo che separa realtà e fantasia [pt.3]

La questione di cosa sia il postmodernismo come estetica o la postmodernità come esperienza ha origine in ambiti come architettura e filosofia. Nel postclassico, invece, nasce in relazione al cinema classico hollywoodiano e in relazione alla modernità filosofica e artistica. Andiamo dunque a inquadrare La città incantata sotto quest’ottica.

Nel postmoderno realtà radicalmente diverse possono coesistere, rifacendosi al concetto di eterotopia coniato dal filosofo Michel Foucault. Egli voleva indicare quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano o riflettono.

Questo è proprio quello che vediamo ne La città incantata (visibile su Netflix), due mondi distinti ma collegati tra loro da un tunnel. “Gli ordinamenti simbolici dello spazio e del tempo forniscono un quadro per l’esperienza attraverso cui apprendiamo chi o che cosa siamo nella società” come riportato da David Harvey nel suo libro sulla crisi della modernità. Tali parole sembrano descrivere la condizione di Chihiro. Rimasta sola in un mondo diverso da quello reale sia dal punto di vista dello spazio che del tempo, solo adattandosi riuscirà ad affermare se stessa.

Anche il tempo oltre allo spazio segue logiche diverse nel mondo degli spiriti rispetto a quello reale e ce ne rendiamo conto nel finale.

Dopo aver riattraversato il tunnel, Chihiro e i suoi genitori si ritrovano davanti alla loro automobile che però, a differenza di come era stata lasciata, appare adesso ricoperta da foglie e ramoscelli e la vegetazione appare notevolmente cresciuta. Viene quindi lasciato intendere che nel mondo reale sia passato molto più tempo di quello che vediamo trascorrere in questo mondo fantastico.

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Una scena de La Città Incantata

Questa “incongruenza” temporale tra i due mondi lascia spazio ad un senso di indeterminatezza (caratteristica tipica del postmoderno), e ci domandiamo se quello che abbiamo visto sia stato reale o solo frutto di un sogno da parte della protagonista. A risolvere questa incognita è soltanto la presenza del laccio per capelli che Chihiro porta e che ha ricevuto durante la sua avventura che rimane dunque l’unico elemento tangibile della sua esperienza.

Postmoderno, in ambito letterario e artistico, si dice di tendenze che, in polemica con l’ideologia del progresso, perseguono la commistione di modi e forme del passato con elementi e spunti innovativi”.

Elemento chiave del linguaggio postmoderno è il citazionismo: come già spiegato, esso è principalmente frutto della crisi dei grandi racconti e della conseguente rinuncia all’idea di progresso e di evoluzione continua. È incredibile come La città incantata sia un enorme “pastiche”, cioè un’opera in cui l’autore ha omaggiato diversi cult della letteratura del passato come Alice nel paese delle meraviglie, Pinocchio e Il mago di Oz, fondendoli con il folklore giapponese per creare una fiaba pedagogica.

Sono riscontrabili, inoltre, nella pellicola punti di contatto anche con opere cinematografiche precedenti tipicamente postmoderne, per prima sicuramente Fight club (che fu un flop clamoroso al botteghino, qui altri 7 film con lo stesso destino). Diversi sono i punti cardine che muovono entrambe le narrazioni:

  1. La liminanza, dal latino “soglia”, è un fenomeno che è al livello della soglia di percezione e coscienza. Si riferisce specificatamente alla fase di transizione o rito di passaggio. L’ esempio più famoso di questa liminalità è l’adolescenza.

La città incantata è costruita visivamente attraverso spazi in cui questa situazione di transizione è dominante. Un fitto sottotesto di scale, tunnel, ponti, ascensori, per arrivare al famoso treno sull’acqua. In Fight Club la sospensione e il rito di passaggio sono altrettanto percepibili, la dimensione onirica e colorata dello Studio Ghibli si scioglie nel grigiore pallido e le tonalità malsane tra il verdastro e l’azzurrino che accompagnano il protagonista. L’insonnia è il limbo del personaggio di Norton.

L’iconico film Fight Club

2. L’identità, essenziale in entrambi i film. Non a caso ne La Città incantata vi sono continui riferimenti come personaggi trasformati (i genitori divenuti maiali), eroi senza memoria (Haku) e ovviamente il fatto che il nome rubato a Chihiro sia il suo unico lasciapassare per tornare al mondo reale. Se quest’ultimo aspetto viene interpretato come l’importanza di riuscire a crescere rimanendo fedeli a sé stessi e non lasciarsi condizionare dagli eventi esterni, il personaggio veramente straordinario da questo punto di vista è il “Senza Volto”.

Privo di una propria identità, non ha personalità e sfrutta solo l’oro per comprare le attenzioni di chi è disposto a vendersi fino a farsi divorare. Miyazaki, come supposto da alcuni critici, ha confermato che il Senza volto rappresenta il Giappone moderno, un essere privo di identità e costantemente affamato.

Uno stato senza identità è uno stato che ha dimenticato le tradizioni, che ha perso la sua voce limitandosi a doppiare le parole di altri. La bulimia cronica, l’arraffare incessante e il voler diventare qualcun altro cercano di compensare una mancanza spirituale che non può però essere trovata in nessun bene materiale. Miyazaki raccontando il percorso di crescita di una bambina ci sta chiaramente dicendo che l’unico modo per colmare questa sensazione di vuoto è smettere di alimentarla.

Una citazione del film di Fincher dice “Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca; non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca. Sei la canticchiante e danzante merda del mondo”. Il personaggio di Tyler Durden non ci sta dicendo chi siamo, ma punta deciso il dito contro ciò che non ci definisce, quei “beni” che alimentano il vuoto a cui fa riferimento Miyazaki (Interessante scoprire qui in che modo Jennifer Aniston ha contribuito al suo ruolo in Fight Club).

3. Il consumismo. Dopo i 2 conflitti mondiali, l’incremento dell’industrializzazione e l’urbanizzazione incontrollata si convertì in isolamento sociale.
Per sopperire a questo nuovo problema ci voleva una nuova soluzione ed “il consumismo come stile di vita” divenne il nuovo sé. Io sono ciò che compro, sono ciò che ho.

Abbiamo due film che si muovono verso epiloghi opposti ma che affondano le radici dei loro conflitti nello stesso terreno: “transizione, identità perduta, consumismo”.

I passeggeri del treno su cui sale Chihiro sono le stesse “ombre lobotomizzate” o “schiavi dai colletti bianchi” cui fa rifermento Tyler Durden. La differenza che recide ogni legame tra le due opere sta nella speranza, masticata e risputata da Fincher in un trionfo di nichilismo, sbocciata e rinvigorita grazie al coraggio di Chihiro ne La Città Incantata.

Altra opera postmoderna che presenta un punto in comune con La città incantata è Twin Peaks. (qui trovate una spiegazione psicologica della serie) La serie di David Lynch condivide con l’opera di Miyazaki l’importanza riservata al cibo.

In entrambe le opere numerose sono le scene in cui i personaggi gustano diverse pietanze. In Twin Peaks il buon cibo (torta di ciliegie, ciambelle, caffè) è un significante per la virtù ed è riservato ai personaggi buoni. Dale Cooper onora la bontà del cibo prendendosi il tempo di assaporare ogni boccone o sorso. Mentre ai personaggi negativi spettano cibi diversi. Basti pensare alla garmonbozia, cioè la rappresentazione tangibile del dolore e delle sofferenze umane, pietanza di cui si nutrono gli spiriti della Loggia Nera.

Proprio in questo luogo a Cooper verrà offerta una tazza di caffè che però si rivelerà essere solido e quindi impossibile da consumare, mostrando come sia meglio non cibarsi di pietanze provenienti da luoghi ambigui, come accade anche all’inizio del film miyazakiano. Nel mondo al di fuori della Loggia Nera, quando un cattivo si preoccupa di mangiare cibo vero, gli manca il giusto apprezzamento per un pasto.

L’iconico agente Dale Cooper

Ne La città incantata invece il cibo ha un duplice significato: il primo è quello di identità e di stabilità. In due occasioni Haku offrirà a Chihiro del cibo dicendole che se non mangia qualcosa di quel mondo scomparirà: il cibo diventa un punto di stabilità per Chihiro, quell’elemento che la mantiene viva. Dall’altra parte però il cibo si trasforma in una maledizione, diventando una feroce condanna al consumismo moderno.

I genitori di Chihiro vengono trasformati in maiali perché si lasciano trascinare dall’ingordigia del banchetto nel quale si imbattono.

Non sanno di chi è quel cibo, chi l’ha cucinato, non parlano nemmeno con il proprietario del chiosco, eppure si concedono un assaggio senza permesso per poi ingozzarsi fino a trasformarsi in maiali. Una pesante condanna al consumismo e all’arroganza indiscriminata con cui l’uomo prima si appropria delle risorse e poi le sfrutta oltre i bisogni di sussistenza.

Inoltre, come ha twittato un dipendente dello studio nel 2016, la volontà di Miyazaki era quella di rappresentare uno specifico evento, ovvero la bolla speculativa giapponese degli anni ’80, che segnò definitivamente la fine del boom economico post-bellico. La dose viene infatti rincarata con l’episodio del demone Senza Volto che da qualche leccornia arriva a inghiottire persone vive.

Il suo è un mangiare senza freno e lo fa per colmare il suo vuoto interiore. Chihiro riuscirà a guarire l’animo di Senza Volto dandogli una polpetta, guarda caso dono di uno spirito di un fiume inquinato che la bambina ha pulito e salvato. Scaricatosi di tutto quel surplus che aveva ingurgitato Senza Volto diventa alleato di Chihiro e trova la sua via per la felicità.

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Una scena de La città incantata

“Il processo di creazione di opere d’animazione non è solo una questione di sforzo individuale. C’è moltissimo lavoro che va a gravare su gruppi di molte persone e ognuno di loro si impegna moltissimo. Sarebbe quindi davvero spiacevole e irritante se il film poi non si dimostrasse redditizio. E se qualcosa non è redditizio, la gente non lo produce, perché non vuole un risultato fallimentare. Sento mia la responsabilità di avviare un lavoro in cui tutti si sentano coinvolti. Se non ci si dispone in tale atteggiamento, non c’è senso nel lavoro dello studio di animazione”.

(Hayao Miyazaki)