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Per parte del pubblico, i documentari naturalistici sono sempre stati un po’ come le verdure a tavola. Fanno bene, sono bellissimi, ma spesso non vengono scelti per primi. Con alcune eccezioni – Planet Earth, Our Planet, i lavori immortali di David Attenborough – che ci hanno stregato con immagini spettacolari e toni solenni, ma che spesso sembrano rivolti a un pubblico già appassionato. Poi arriva Underdogs (prima stagione, cinque episodi da 40 minuti, uscita a giugno su National Geographic, Disney+ e Hulu) e tutto cambia. La voce narrante non è quella rassicurante di un grande naturalista, ma quella di Ryan Reynolds, alias Deadpool. L’uomo che ha trasformato l’irriverenza in marchio di fabbrica.
Immaginatevi quindi di guardare un documentario con immagini da Oscar. La colonna sonora dei Green Day. E la voce che vi racconta le prodezze di un gambero che spara colpi più caldi del sole come se stesse commentando un film Marvel. Questo è Underdogs: la natura vista attraverso un filtro pop, ironico e disincantato. Un documentario che sembra nato non tanto per insegnare, quanto per far ridere, stupire e (magari) farvi appassionare a creature di cui non avevate mai sentito parlare.
Underdogs e la rivoluzione del linguaggio documentaristico
La prima cosa che salta all’occhio – o meglio, all’orecchio – è il cambio di linguaggio. Addio voci gravi, spiegazioni solenni, pause drammatiche per sottolineare l’importanza del momento. Reynolds prende per mano lo spettatore e lo accompagna tra rane trasparenti e lamantini flatulenti con lo stesso tono con cui Deadpool commentava l’assurdità del mondo dei supereroi. È un documentario che non si prende mai troppo sul serio. E proprio per questo riesce ad attirare anche chi, normalmente, ai documentari preferisce la sitcom o il rewatch di Breaking Bad.
Ogni episodio di Underdogs è costruito come un mini-show tematico. Dagli animali supereroi con poteri incredibili, ai sexy beasts con rituali di corteggiamento improbabili, fino agli unusual suspects, veri e propri maestri dell’inganno. Un format che ricorda da vicino la serialità televisiva più pop, quasi fosse una serie antologica, ma applicato alla natura. Ed è qui che sta la rivoluzione. Underdogs prende un genere considerato serioso e per pochi intimi portandolo nel territorio dell’intrattenimento puro, senza mai rinunciare alla qualità delle immagini.
Dietro le quinte: come nasce un documentario così pop

Underdogs non è piovuto dal cielo. Dietro c’è l’esperienza tecnica di Wildstar Films, lo studio già responsabile di colossi come Planet Earth e Frozen Planet, unita alla volontà di National Geographic di sperimentare con formati nuovi. La scintilla arriva con Maximum Effort, la casa di produzione di Ryan Reynolds, che ha portato in dote l’idea di un documentario capace di rovesciare i canoni classici. Niente più voci solenni che raccontano le gesta di leoni e squali: stavolta toccava agli outsider. Agli animali bizzarri e sottovalutati, raccontati con lo stesso tono con cui si commenterebbe una partita NBA o una scena di Deadpool.
La scommessa era rischiosa, ma ha funzionato: Reynolds non è solo un narratore, è un complice che porta lo spettatore dentro il documentario, ridendo con lui e mai di lui. E così il progetto ha trovato la sua forza nell’ibrido: immagini spettacolari da documentario di fascia alta, più ironia sfrontata, più protagonisti improbabili. Una formula che ha dato a Underdogs quell’identità unica che lo distingue da tutto ciò che avevamo visto finora nel genere.
La potenza delle immagini: NatGeo non si smentisce
Se l’ironia di Reynolds è la chiave di volta, la potenza visiva resta quella inconfondibile dei documentari National Geographic. Macro in 6K, riprese al rallentatore fino a 1000 fps, droni che esplorano scenari remoti, robot-cam che si infilano in tane e grotte. Underdogs è un tripudio di tecnologia al servizio della meraviglia naturale.
Ci sono momenti che lasciano a bocca aperta. Come le colonie di vermi luminescenti in Nuova Zelanda o i dettagli microscopici di creature semi-invisibili, resi con una nitidezza che fa sembrare il televisore una finestra sul campo. È qui che la serie dimostra di non essere solo gag e battutine. Al netto dell’umorismo, il livello tecnico è altissimo e nulla ha da invidiare a mostri sacri come i già citati Our Planet o Planet Earth.
È questo contrasto, comicità sopra immagini spettacolari, che rende Underdogs qualcosa di unico. Inaspettato. Ti ritrovi a ridere di fronte a una battuta di Reynolds e, un secondo dopo, ad ammirare un gambero che genera esplosioni subacquee. Una combinazione che non pensavi potesse funzionare, e invece ti conquista.
Underdogs e il pubblico giovane (ma non solo)
Diciamolo chiaramente: Underdogs nasce per catturare un pubblico nuovo. Non solo i già appassionati di documentari, ma soprattutto chi solitamente li evita. È la serie che puoi proporre a un amico che ama Rick and Morty o The Office e che di solito sbadiglia davanti a un leone nella savana. Reynolds è l’esca perfetta: la sua ironia rompe ogni distanza, rende lo spettatore complice e abbassa la barriera d’ingresso.
Non è un caso che i Green Day abbiano firmato il tema musicale. Un chiaro richiamo diretto alla cultura pop-punk che strizza l’occhio a un pubblico under 40, quello più abituato a meme e stand-up comedy che a lunghi piani sequenza sulla migrazione degli gnu. Ma attenzione: non significa che la serie non possa piacere anche agli adulti. Anzi, molti spettatori trovano irresistibile proprio questa combinazione tra comicità e meraviglia scientifica. È, in fondo, la stessa formula che ha reso virali divulgatori come Barbascura X. E qui arriviamo a un punto interessante per il pubblico italiano. Perché se Reynolds è la voce globale che ha reinventato il documentario naturalistico, anche noi abbiamo un nome influente de, genere: Barbascura X. Da anni lo scienziato-divulgatore pugliese intrattiene milioni di spettatori su YouTube con la sua Scienza Brutta. All’interno del format, racconta fenomeni naturali, animali assurdi e stranezze scientifiche in modo umoristico.
Entrambi i casi dimostrano che il futuro della divulgazione scientifica non passa più solo dal tono serio e distaccato, ma dalla capacità di intrattenere e coinvolgere con linguaggi vicini al pubblico.
Underdogs e i suoi limiti: non tutto è perfetto

Ovviamente, non è tutto oro. Underdogs ha anche dei limiti che vale la pena sottolineare. Primo fra tutti, il rischio di ripetitività. Dopo qualche episodio, lo schema “animale bizzarro, battuta di Reynolds, grafica divertente” rischia di diventare prevedibile. È una serie pensata per essere gustata poco alla volta, più che per il binge-watching.
Inoltre, la componente scientifica a volte passa in secondo piano. Non aspettatevi le spiegazioni dettagliate di Planet Earth. Qui l’approccio è volutamente leggero, e le informazioni biologiche sono ridotte all’essenziale. Per alcuni spettatori questo è un difetto, per altri è il vero punto di forza. Dipende dalle aspettative con cui ci si avvicina. Infine, non tutte le battute colpiscono nel segno. Reynolds è geniale quando gioca con il sarcasmo, ma qualche gag più grossolana su particolari situazioni imbarazzanti può sembrare forzata o puerile.
Underdogs è il documentario che non sapevamo di volere
In definitiva, Underdogs è un esperimento riuscito: dissacrante, spettacolare, pop. Non sostituisce i grandi documentari del passato ma apre una nuova strada, parlando a un pubblico che di solito non guarda documentari e che qui trova un mix irresistibile di ironia e meraviglia. È la dimostrazione che la divulgazione scientifica può reinventarsi, anche a costo di sembrare irriverente. E che perfino un lamantino che galleggia grazie alle flatulenze può insegnarci qualcosa.
Se amate i documentari, potreste storcere il naso per la leggerezza dell’approccio. Se non li amate, questa potrebbe essere la serie che vi farà cambiare idea. E nel mezzo, resta il piacere di vedere Ryan Reynolds trasformarsi per poco più di una mezz’ora nell’Attenborough che non sapevamo di volere. Forse non vi farà diventare esperti di biologia, ma di certo vi farà guardare al regno animale con occhi nuovi. E, cosa ancora più importante, con un sorriso.

