2) Don’t die (03×06) è una straziante manifestazione del male quotidiano

Il momento centrale e più impattante dell’episodio, lo abbiamo quando il piccolo Steven attraversa la strada correndo verso la madre. L’auto guidata da Richard Horne, l’incarnazione del nichilismo più feroce in The Return, lo travolge a tutta velocità. La madre corre e lo prende tra le braccia, urlando con dolore disumano, mentre i passanti assistono impotenti. Qui Lynch non mostra sangue, ma la tragedia è totale. La scena è girata in tempo reale, con macchina fissa e senza musica. Il contrasto tra l’assolata normalità del momento e la violenza improvvisa crea un effetto di shock emotivo fortissimo.
Il volto della madre che urla pietrificata, e quello della donna che osserva e poi si inginocchia, restituiscono il dolore puro, senza mediazioni cinematografiche. Questa scena è insostenibile proprio perché realistica e silenziosa, e perché ci dice che, in Twin Peaks, il male può uccidere un bambino in pieno giorno… ma il mondo va avanti. Dopo l’investimento, Richard non si ferma, non guarda indietro, non prova rimorso. È un assassino disinteressato alla vittima, mosso dal solo pensiero di salvarsi. Poi, subito dopo la scena dell’investimento, l’episodio non si sofferma, non chiude la scena, non dà conforto allo spettatore.
La storia prosegue con altre trame come se nulla fosse successo
Questa scelta narrativa è volutamente crudele, non c’è giustizia, consolazione e nemmeno una reazione da parte dei personaggi principali. È il ritratto di un’umanità in ginocchio, dove anche la morte di un bambino non riesce a fermare l’incedere dell’assurdo. In parallelo, non a caso, Ike “The Spike” uccide brutalmente una donna in una scena anch’essa atroce. Mentre Dougie/Cooper vaga ancora in stato dissociato, senza identità, sorretto solo da gesti automatici e presagi simbolici.
Così, questi frammenti servono a creare un’atmosfera di disconnessione, come se tutto fosse immerso in una bolla di realtà alterata, dove il dolore non ha voce e la logica non ha peso. Alla fine, Dougie-Cooper pronuncia una frase semplice e inattesa: “Don’t die.”, rivolta a Janey-E. Questa, detta con uno sguardo assente, ma con un’intensità che rompe il vuoto dell’episodio, sembra il primo sussulto di un’anima che cerca di risvegliarsi dal trauma collettivo. È quasi un grido silenzioso rivolto a tutto il mondo di Twin Peaks: “non morite dentro”.
1) Zen, or the Skill to Catch a Killer (01×03) determina l’incubo onirico di Twin Peaks

È il momento in cui la serie abbandona i canoni classici del giallo televisivo e trascina lo spettatore in un mondo sconnesso dal tempo, dalla logica e dalla realtà. Non c’è sangue. Non c’è violenza fisica. Ma l’episodio è un’esperienza psicologicamente destabilizzante, inquietante nel profondo, perché, per la prima volta, Twin Peaks ci costringe a guardare dentro l’inconscio collettivo del male. Ci riferiamo, per l’appunto, al primo vero sogno di Cooper, laddove appare il Nano, vestito di rosso, che parla al contrario, creando un effetto sonoro stridente. Poi, appare Laura Palmer, ma non è viva, né morta: è un simbolo vivente del trauma.
Cooper è invecchiato, immobile, sconcertato. L’ambiente, i movimenti, i suoni, tutto è progettato da Lynch per generare una tensione senza rilascio, un senso di angoscia viscerale. Pertanto, l’uso distorto del linguaggio simula un mondo dove i segnali non si decifrano più, e le parole non significano ciò che dovrebbero. È come se le parole stesse fossero ferite, spezzate e sottoposto a tortura. Nel sogno, Laura si avvicina a Cooper e gli sussurra qualcosa nell’orecchio.
Il detective si sveglia sapendo chi è l’assassino, ma non riesce a ricordarlo
Questa struttura, allora, produce un ostacolo secondario: noi spettatori siamo sull’orlo della verità, ma ne siamo respinti. E Lynch imposta tutta la scena della Red Room con movimenti lenti e meccanici, musica jazz smorzata, riprese statiche, senza via di fuga. Anche chi guarda da casa viene “ipnotizzato”, portato dentro lo stato mentale di Cooper. A differenza degli episodi successivi, qui non c’è nessun omicidio o colpo di scena sanguinario.
Eppure l’effetto è più alienante, in quanto il sogno di Cooper è il primo contatto con l’orrore metafisico. Non a caso, Zen, or the Skill to Catch a Killer è il primo episodio dove Twin Peaks smette di parlare di un crimine e inizia a parlare del terrore che lo circonda. Ed è qui che lo spettatore smette di cercare risposte logiche e inizia a subire l’impatto emotivo e simbolico del mistero. Non è solo inquietudine, è angoscia archetipica, senza uscita.