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‘Ti voglio bene, grazie. Ti perdono tutto, e perdonami.’ Sono queste le parole con cui, nei nuovi episodi di The Pitt, il Dott. Roby – una persona che di decessi ne ha affrontati parecchi – ci invita a dire addio a chi sta morendo sotto i nostri occhi. Lui, che conosce bene la prospettiva di chi se ne va e di chi rimane, non trova combinazione di parole o frasi migliori per salutare chi c’è sempre stato, anche se male. Anche se spesso non all’altezza, inadeguato, non all’altezza del ruolo. Come ogni essere umano chiamato a resistere e dare il meglio finché ce la fa, nella speranza di potersi un giorno dare una pacca sulla spalla e raccontarsi di aver fatto tutto il possibile.
Ma a volte non si arriva fino in fondo. Si lascia il campo prima. E in quel momento, nessuna parola è davvero sufficiente a confortarti sul lavoro svolto, se non la consapevolezza che chi ti guarda spegnerti ti vuole bene, ti ringrazia, ti perdona e, a sua volta, cerca il tuo perdono. E questo vale anche per quell’anziano di oltre novant’anni che, nonostante la lunga vita, non è mai riuscito a essere ciò che la figlia avrebbe voluto. La stessa che ha provato con forza a opporsi alla decisione di spegnere ogni macchinario, pur sapendo che era tempo di lasciarlo andare. Quella macchina, accesa e collegata al corpo del padre, non serviva solo a farlo respirare. Era il modo con cui lei continuava a respirare. A illudersi che non fosse ancora finita. Che tutto andasse bene. Di poter ancora fare un ultimo ballo con suo padre, prima della fine.
Anche se la fine era vicina. Dichiarata. Ineluttabile. Ma per quanto logico possa sembrare un addio imposto dalla condizione umana, la verità è che non ci si arriva mai davvero pronti. È una delle cose più comuni e al tempo stesso più strazianti: essere impreparati all’addio, anche se questo urla. E The Pitt, da grande Serie Tv medical che mette al centro la vita e la morte, questo lo sa bene. Così, quando arriva il momento di dire addio – di cedere alla vita che sta per andarsene – non si rifugia in colpi di scena, non teatralizza l’agonia: lascia semplicemente fluire la storia. Quella di una figlia che desidera un ultimo ballo. Che, per molte storie, è anche il primo.
Durante le prime due puntate di The Pitt abbiamo fatto luce su tutti gli aspetti tecnici della Serie Tv HBO. Ma con i nuovi due episodi sveliamo la parte più emotiva della serie, che ci ricorda cosa rischiamo di dimenticare quando ci smarriamo nel caos

Si rischia di perdersi nel caos del Trauma Medical Center di Pittsburgh. Di perdere di vista il motivo per cui si corre, per cui si cerca quel nuovo farmaco, di fermarsi da quel figlio che sta piangendo da solo in una corsia d’ospedale spoglia e gelida. Si rischia, e non sarebbe nulla di sorprendente. Lo hanno detto più volte: è una deformazione professionale, o forse solo un modo come un altro per riuscire a mantenere una distanza di sicurezza, abbastanza per poter passare al prossimo paziente.
Ma al Trauma Medical Center di Pittsburgh, niente viene dimenticato. Nulla si disperde tra le corsie. Nel cuore del caos, il Dott. Roby sa sempre cosa fare, dove andare, cosa dire. Ed è qui che nasce una delle differenze più profonde rispetto ai recenti medical drama: in The Pitt non si parla solo dei pazienti. Non si conclude una diagnosi per passare subito al caso successivo. Al centro ci sono anche i parenti.
Perché al Trauma Medical Center di Pittsburgh sanno qualcosa che molte Serie Tv hanno smesso di raccontare: che a volte un male si estende, straripa, fino a raggiungere chi quel letto non lo occupa. Una moglie, un figlio, una madre o un padre. Il dolore non si ferma al corpo: entra, si annida e prende forma anche nell’altro. Diventa un mostro, un’ombra, un’eredità invisibile che ogni giorno cresce nell’anima di chi è rimasto accanto. Di chi c’è sempre stato.
Ed è su questo che The Pitt costruisce la sua narrazione. È a questo che affida il suo obiettivo: ricordare di non dimenticare cosa può fare il dolore. A chi se ne va, ma soprattutto a chi resta. Ancora una volta, come in quella storia di due figli adulti, apparentemente risolti, che scoprono di non aver detto, né fatto, abbastanza con un padre ormai stanco, oltre i novant’anni, pronto ad andarsene. Anche se le loro vite, quelle dei figli, non sono pronte a continuare con il rimpianto di non sapere – di non aver mai visto – cosa quel padre avrebbe potuto essere se solo fosse stato meno arrabbiato, meno distante, meno ostile. Più presente. Anche in silenzio.

Sono state due puntate come le precedenti (come sempre disponibili su Sky e NOW). Stessa corsa contro il tempo, la solita frenesia, lo stesso dolore. Le solite emergenze, il caos di nuovi pazienti, la sofferenza di altri esseri umani. Ma questa volta è accaduto qualcosa in più. Dopo aver chiarito, nelle puntate precedenti (di cui abbiamo parlato qui), la natura profonda della serie, The Pitt ha scelto di mostrare un altro volto. Più vulnerabile, più empatico. Più necessario. Un approccio narrativo che ci ha tenuti incollati ai due episodi, riuscendo a farci immergere completamente nella prospettiva del Dott. Roby.
Ed è grazie a questo che siamo riusciti a vedere tutto. A comprendere davvero. A riconoscere il dolore che si consuma nel bel mezzo del caos. E a provarne un po’ per ciascuno. Per quella ragazza che ha cercato in un farmaco un modo per riuscire a dormire ma si è ritrovata in una situazione più grande di lei. Per quella bambina di dodici anni rimasta senza madre, costretta a cominciare una vita per cui non è ancora pronta. Per quel padre che la guarda inerme da un letto d’ospedale, dopo aver perso sua moglie.
Abbiamo vissuto il dolore sotto diverse sfumature. Lo abbiamo visto farsi presenza, e poi speranza, seppur spesso fragile, forse illusoria. E siamo saliti su quest’altalena emotiva come se non fossimo davvero sul divano di casa, ma dentro il Trauma Medical Center di Pittsburgh, a contatto con dolori che abbiamo riconosciuto. Perché li abbiamo già visti, da qualche parte: nei nostri sguardi stanchi, segnati da un dolore che non sapevamo – o non ricordavamo – di saper contenere.
The Pitt chiude così la sua terza e quarta puntata. Ci ricorda che è viva. E che il dolore, qui, è condiviso. È dinamico. Si muove da un corpo all’altro, da una stanza all’altra, lungo le corsie frenetiche di una Serie Tv che, in fondo, sembra volerci dire una cosa soltanto: non dimenticare ciò che accade quando il peggio è già arrivato. Quando le premesse, le speranze e i desideri non trovano più spazio. Quando l’irreversibile si è già compiuto. Quando ciò in cui speravamo non ha conosciuto un lieto fine. E chi aspettavamo, purtroppo, è stato costretto ad andarsene, senza avere il tempo — o il diritto — di concedersi quell’ultimo ballo.







