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ATTENZIONE: l’articolo è frutto di fantasia, ma potrebbe contenere qualche dettaglio sull’arco narrativo di Roy Kent, uno dei personaggi di Ted Lasso, la serie tv Apple TV+ che sta per tornare sulla piattaforma!

Le Roi, il Re. In certi sobborghi di Londra, all’ombra del luccichio psichedelico di Soho, lontano dai riflettori della frenetica Big Smoke, capita ancora di udirla quell’inflessione francese che ricorda ai sudditi del Regno i loro vecchi legami coi cugini d’oltremanica. Le Roi era il re, il sovrano, il leader carismatico che poteva portarti ovunque. E lì, a due passi da quello che poi sarebbe diventato il prato di Wembley, quando ancora gli inglesi non masticavano pallone e Jürgen Klopp era lontano dal valicare la Manica, c’era un popolo che si stringeva attorno al suo re e con quello scriveva ballate sulla gloria e sul coraggio. Una volta, sir Winston Leonard Spencer Churchill, per gli amici Primo Ministro di sua Maestà, ebbe a dire degli italiani: vanno in guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse una guerra. Sir Winston sarebbe passato a miglior vita nel 1965, appena ventisette anni prima che le 22 squadre affiliate alla First Division decidessero di uscire dalla Football League e di dar vita a una delle competizioni calcistiche più incredibili del pianeta: la Premier League. E mentre il mondo andava incontro a una inesorabile trasformazione e nel Vecchio Continente soffiavano aneliti di pace, anche gli inglesi imparavano ad andare allo stadio come andassero al fronte, pronti a farsi popolo ancora una volta e ad eleggere il sovrano assoluto che li avrebbe guidati alla vittoria. Il Re.
Più o meno negli stessi anni, un bambinetto mingherlino e sempre accigliato, coi calzoni sporchi ma con i piedi fatati, lasciava per sempre i banchi della scuola elementare. Per il suo decimo compleanno, aveva fatto una sola richiesta: voglio un pallone. Quel ragazzino però non era esattamente uno come gli altri, no. Quel bambino era Ruadh Rowan Kent.
Per gli amici: Roy Kent, le Roi.

Io sono Federico Buffa e in questa puntata vi racconterò la storia di uno dei calciatori più in-cre-di-bi-li che abbiano mai messo piede su un campo da calcio inglese. Questo è il Buffa Racconta Roy Kent.

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio, diceva Jorge Luis Borges. E poi aggiungeva: ogni volta che uno come Roy Kent prende a calci qualcosa per la strada, è facile che due minuti dopo arrivi la polizia. E sì, perché il grande tarlo del giovane Ruadh Rowan era la forza bruta. Meglio ancora: l’uso inappropriato della forza bruta. Quando gli capitavi davanti nelle giornate storte, ti mollava un calcio sui denti di una potenza che nemmeno il tiro della tigre di Mark Landers, un altro fuoriclasse con qualche problemino di gestione della rabbia, era mai riuscito ad eguagliare. Una volta Mick McCarthy, allenatore della nazionale irlandese, lo vide pestare un bullo al campetto dietro casa e, d’improvviso, ebbe un’illuminazione: ragazzo, i calci invece di darli in faccia, dovresti provare a darli al pallone. Fu la svolta. Roy Kent non seguì semplicemente il consiglio di McCarthy: ne fece una filosofia di vita. Un giorno, l’allenatore delle giovanili del Sunderland decise di portarlo con sé nella trasferta contro il Wolverhampton, valida per l’accesso alle semifinali di categoria. Il giovane Roy partì dalla panchina. Non aveva mai giocato in una competizione seria. Quando però il numero 10 del Sunderland venne messo fuori gioco da un intervento scomposto del difensore centrale, il coach si girò in panchina, puntò l’indice contro il petto di Kent e disse: giochi tu. Il Mark Lenders di London City non se lo fece ripetere due volte. Allacciò gli scarpini, tolse la museruola e si lanciò in campo con quella prontezza tattica che appartiene solo agli stolti. O ai grandi campioni.

Trenta secondi, mischia in area, tackle scomposto sull’avversario e cartellino rosso diretto: un’impresa che, anni dopo, sarebbe riuscita solo a Moise Keane in un bellicoso Roma-Juve di inizio marzo. Ma questa è tutta un’altra storia.

Il ragazzino rabbioso che aveva esordito col Sunderland invece si rivelò una risorsa preziosa per la squadra. Gioco duro, mentalità vincente, grande capacità di adattamento e indole stoica. Ma, soprattutto, un taleeento mostruoso. La palla, sotto i suoi tacchetti, sembrava il coniglietto da esibizione del mago Forest: spariva. Roy sapeva dare sostanza al gioco come Gesù di Nazareth sapeva ridare vita agli storpi: era un demiurgo coi calzettoni, un nume pagano della trequarti. Roy Kent non smistava semplicemente la palla: accarezzava le traiettorie e le plasmava secondo le sue geometrie. Teneva il centrocampo come Ercole le colonne. Frankie Lampard ebbe a dire di lui: il mio unico rimpianto come calciatore è quello di aver giocato mentre Roy Kent era in attività. Come mezzala di corsa, dava supporto sia nella fase difensiva che in quella d’attacco. Riusciva a infilarsi tra le linee quando la difesa avversaria meno se l’aspettava. Era un incursore imprevedibile e sapeva bucare l’area meglio di uno Steven Gerrard degli anni d’oro. Prendeva di soprassalto le barricate degli allenatori avversari, disintegrava catenacci con un lampo di ingegnosità tattica, ripuliva palloni sulla trequarti per servirli con lucidità sui piedi dei compagni. In una parola: un genio.

Al Sunderland AFC, il piccolo Roy – il ragazzino incattivito che prendeva a calci i prepotenti, l’incubo peggiore di tutti i bulletti di quartiere – divenne le Roi, il condottiero che sapeva trascinare la squadra alla vittoria. Nelle sue stagioni nel North East vinse meno di Gian Piero Ventura con l’Italia, ma conquistò la fascia da capitano e mantenne il club saldamente tra le grandi d’Inghilterra. Poi arrivarono le convocazioni in Nazionale, le prime voci di mercato, i contratti milionari avanzati dai club di tutta Europa e, infine, il Chelsea. Con i Blues, Roy Kent riuscì a calcare finalmente il palcoscenico dei grandi talenti. Lo Stamford Bridge era il suo Globe Theatre. Lui, la leggenda dei tifosi. Roy Kent è stato uno dei giocatori più amati della storia del club, non tanto perché sapeva trasformare in palle giocabili anche le sassate più sporche, ma perché era talmente attaccato alla maglia, da voler giocare tutta la stagione sempre con la stessa. Per la gioia dei magazzinieri, che nelle lavanderie dello Stamford Bridge gli hanno infatti eretto un busto di terracotta che resiste ancora alle intemperie. Antonio Conte ricordò una volta, in un’intervista, di non aver mai allenato un calciatore più determinato di Roy Kent: guardate, ve lo giuro. A Roy Kent non dovevo chiedere nemmeno di allenarsi. Mi picchiava se cancellavo un allenamento, veramente. La tigna, la prontezza, l’audacia con cui si gettava incontro all’avversario avrebbero ispirato le serate migliori di Kevin De Bruyne e spinto Nainggolan chissà dove. Ma non solo.

È qua
È là
Ma come c***o fa
Roy Kent
Roy Kent

Se vi infilaste in un pub affollato della capitale, a ora di cena, potrebbe capitarvi ancora oggi di ascoltare la leggenda di Rob Roy MacGregor, il fuorilegge scozzese che rubava ai potenti per dare ai poveri disgraziati. Rob Roy fu una figura di spicco dell’epica popolare scozzese tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo: era un eroe trasandato che difendeva la sua casa a mani nude, spolpando i lord prepotenti e lasciandoli a pascolare nel fango tutte le volte che provavano a toccargli qualcosa di importante. Ecco, il Roy Kent che ha portato il Chelsea sul tetto d’Europa somigliava un po’ a quell’eroe lì: un Robin Hood del pallone che toglieva agli avversari per dare ai propri tifosi. Un esteta del gioco maschio, un rivoluzionario del centrocampo, un condottiero con la fascia sul braccio.

È qua
È là
Ma come c***o fa
Roy Kent
Roy Kent

Poi però, come in tutte le storie belle, arriva anche un momento in cui devi dire basta. E persino Ruadh Rowan, che ha passato una vita a convincerci che poteva vincere il tempo e piegare la fisica, ha un difetto: è umano. È fatto anche lui di muscoli che si intorpidiscono, di legamenti che si inceppano, di gambe che si appesantiscono. E questo, per un fuoriclasse che ha fatto della fisicità una delle sue armi migliori, potrebbe non essere un bene. Il secondo tempo di Roy Kent è cominciato con l’arrivo all’AFC Richmond. Un club antico, ma con pochi trofei sullo scaffale. Una proprietà ambiziosa, ma distratta. Una tifoseria difficile, ma calorosa. Una realtà ben distante dai riflettori dell’alta classifica della Premier League. Eppure, anche qui, Roy Kent si è caricato tutti sulle spalle e li ha portati a spasso. E sì, perché se c’è una cosa che non puoi estirpare in nessun modo, che non puoi estinguere con nessun sotterfugio tattico, quella cosa è il taleeento. E se ti chiami Roy Kent e nella vita hai scelto sempre da che parte stare, la strada per la gloria è già stata spianata. E a te, non resta che seguirla.

Al Richmond, il fenomeno di London City ha faticato parecchio. In un calcio in rapida evoluzione, i suoi sembravano gli strumenti di Galileo negli uffici della Silicon Valley: poco al passo coi tempi. Specie quando l’astro nascente di Jamie Tartt ha rischiato di oscurare la lunga traversata del Robin Hood del pallone. Roy si è mostrato umano, ha sbagliato, ha fallito, è caduto e si è rialzato. Ma i fischi si sono fatti più insistenti, i palloni sempre più veloci, gli avversari sempre più sprizzanti. Finché un bel giorno – era l’inizio della stagione 2020/2021 – un omino sconosciuto venuto dalle terre ruvide del lontano Kansas, non ha fatto la sua comparsa nella vita di Roy Kent: Theodore “Ted” Lasso. Fu la svolta, ancora una volta. Se Mick McCarthy ha dato a Roy Kent la sua prima vita, Ted Lasso – Ted Lasso il buono, ma buono sul seriogliene ha consegnata una seconda, libera da fantasmi, da paure, dalla rabbia della gioventù, dalle invidie del presente. Ted Lasso ha fatto con Roy Kent quello che Luciano Spalletti non è riuscito a fare con Francesco Totti: offrirgli un futuro che non fosse troppo distante dal presente. Così, quel secondo tempo che per tutti sembrava configurarsi come la logorante attesa della fine del garbage time, si è trasformato in uno strabiliante finale di partita. Cosa sarebbe successo se Roy Kent non avesse mai incontrato Ted Lasso, non potremmo mai saperlo. Quel che sappiamo è che le Roi è risorto come una fenice dalle sue ceneri e con quelle stesse ceneri ci ha scritto un altro meraviglioso capitolo della sua straordinaria storia.

Quando Rob Roy MacGregor morì nel suo letto in Scozia, nel 1734, da uomo libero, una cornamusa suonò per tutta la notte le note di I Shall Return No More, mentre il popolo si affacciava alla sua finestra per tributargli l’ultimo saluto, proprio come si fa per i re e per le leggende. La cornamusa di Roy Kent ha suonato per l’ultima volta nella partita con il Manchester City. Ma in città, c’è ancora qualcuno che giura di sentirla, ogni tanto, quella canzoncina che fa È qua È là Ma come c***o fa Roy Kent Roy Kent