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Come un buon vino che migliora con gli anni, Slow Horses ha affinato la sua cifra narrativa e stilistica stagione dopo stagione. Finendo per conquistare un meritatissimo posto d’onore nel firmamento delle serie TV contemporanee. Un prodotto Apple TV+ che ha saputo unire suspense, ironia e umanità con una padronanza rara. Tanto da raggiungere una qualità tale da meritarsi applausi sia dal pubblico che dalla critica. Con un indice di gradimento che sfiora il 98% su Rotten Tomatoes, Slow Horses è diventata una delle migliori spy story in circolazione. Un classico moderno in rapida crescita.
L’evoluzione di Slow Horses dal debutto alla quinta stagione
Non è mai semplice per una serie mantenere freschezza e coerenza nel corso delle stagioni. Eppure, Slow Horses ha fatto esattamente questo. Dalla prima stagione che introduceva una squadra di agenti dell’MI5 caduti in disgrazia, la serie è via via cresciuta in intensità e complessità. I protagonisti non sono più solo falliti da evitare ma figure dinamiche, complicate e protagoniste attive nel mondo dello spionaggio.
La critica sottolinea che da semplice spy drama classico si è passati a un racconto corale, dove ogni personaggio evolve in termini professionali e umani. E le storie si intrecciano in modo più maturo e coinvolgente. La quinta stagione, al momento in distribuzione e da Hall of Series recensita settimanalmente, è tratta dal romanzo London Rules e rappresenta proprio questo punto di svolta. Quello, cioè, in cui la squadra del Slough House si dimostra capace di gestire minacce complesse e delicati equilibri politici, con la consapevolezza dei propri limiti ma anche con rinnovata determinazione.
Slow Horses: il filo sottile che lega le grandi spy story

Breve digressione personale. Nel vasto panorama delle spy stories televisive, Slow Horses si sta rapidamente imponendo come un punto di riferimento imprescindibile. Chi vi scrive è un grande amante del genere e nutre una profonda passione per Homeland. Ho sempre cercato nelle serie di spionaggio quel raro equilibrio tra tensione politica, profondità psicologica e ambiguità morale, elementi che hanno reso Carrie Mathison uno dei personaggi più affascinanti della televisione contemporanea. Con mia grande sorpresa, ho ritrovato questa stessa complessità in Slow Horses, pur in una forma del tutto diversa. Qui non ci sono crisi maniacali né drammi esistenziali urlati, ma un’umanità più trattenuta (scoregge a parte…), più britannica. Ferite che non si nominano, lealtà ambigue, istituzioni corrotte che agiscono nell’ombra.
Mentre Homeland esplora lo spionaggio attraverso il fuoco dell’emozione e il caos interiore, Slow Horses lo racconta con ironia caustica, silenzi carichi di significato e un realismo sporco che rifiuta ogni retorica. Eppure, entrambe le serie condividono una stessa anima: quella di raccontare non tanto le operazioni segrete, quanto le persone che le vivono. Spie imperfette, tormentate, spesso sole. Costrette a scegliere in un mondo dove il bene e il male raramente coincidono con le uniformi o i distintivi.
Per chi, come me, ha amato Homeland per la sua capacità di mescolare geopolitica e psicologia, Slow Horses offre un’esperienza altrettanto ricca ma filtrata attraverso uno sguardo più disincantato, più adulto. E altrettanto necessario.
Slow Horses: un fenomeno cult amato da critica e fan
Nata su una piattaforma con una base di abbonati ben più contenuta rispetto ai colossi dello streaming, Slow Horses ha saputo superare i confini della nicchia grazie al passaparola, alla qualità indiscutibile e a un’identità così forte da imporsi anche senza il supporto di un algoritmo globale. Il termine cult si usa spesso ma raramente diventa davvero calzante. Nel caso di Slow Horses, però, si parla proprio di una serie a cui ormai si fa riferimento come un vero e proprio cult. I critici sottolineano come la combinazione unica di umorismo britannico caustico, il realismo sporco dell’ambientazione londinese e la profondità psicologica creino un’atmosfera affascinante e coinvolgente.
Un commento molto diffuso è che Slow Horses non sia semplicemente una serie di spionaggio ma qualcosa di più autentico e spiazzante, capace di mescolare tensione con momenti di commedia grottesca che la rendono memorabile e diversa dai prodotti mainstream. Per alcuni, è proprio questa mistura di ingredienti a farne un prodotto di culto, capace di attrarre un pubblico affezionato che va ben oltre il genere spy story.
Premi e riconoscimenti che consacrano Slow Horses
Non ce ne sarebbe bisogno. Ma aiuta a farsi un’idea. Il percorso d’eccellenza di Slow Horses è testimoniato anche dalle numerose candidatura ai premi più prestigiosi: oltre ottanta. Tra queste la serie ha conquistato, in ordine sparso: 2 Satellite Awards, 3 BAFTA e 2 Emmy. Pochi (premi) ma buoni, che non fanno che ratificare la qualità e l’innovatività del prodotto. Apple TV+ consapevole del valore, ha già confermato la produzione di una settima stagione (già avviate le riprese), un traguardo notevole che sottolinea la fiducia nel progetto e una fanbase sempre più solida.
Questa longevità è un traguardo raro nel panorama televisivo attuale, dove molte serie si trovano ad affrontare cancellazioni anticipate. Slow Horses, invece, si conferma un titolo di punta, capace di mantenere alto il livello, suscitare interesse costante e attirare costantemente nuovi spettatori.
Il cast

È difficile trovare una serie televisiva che riesca a mantenere uno standard così alto per cinque stagioni consecutive ma Slow Horses lo fa grazie a un cast corale impeccabile. Al fianco del “capobranco” Jackson Lamb si muove un gruppo di attori britannici di prima grandezza che trasforma la Slough House, quel grigio ufficio per spie fallite, in un palcoscenico di personaggi vivi, sfumati e profondamente umani.
Spicca Jack Lowden nel ruolo di River Cartwright, l’agente caduto in disgrazia nonostante il talento evidente. Il suo arco narrativo è quello della redenzione e Lowden lo interpreta con una grazia e un’intensità da protagonista mancato che lo rendono l’anima impulsiva del gruppo. Kristin Scott Thomas invece è la controparte gelida e calcolatrice: la sua Diana Taverner, soprannominata “Second Desk”, è la quintessenza del potere silenzioso, una donna che sa muovere le fila dell’MI5 con l’abilità di una scacchista.
Non da meno sono gli altri volti che popolano la disfunzionale famiglia della Slough House.
Saskia Reeves porta sullo schermo l’anima fragile e pratica di Catherine Standish, memoria vivente del gruppo. Christopher Chung è irresistibile nei panni del nerd informatico Roddy Ho, un genio maleducato che ruba ogni scena con il suo sarcasmo tagliente, mentre Rosalind Eleazar dà spessore e umanità a Louisa Guy, un’agente tanto capace quanto ferita. Accanto a loro, la giovane Aimee-Ffion Edwards offre alla serie un tocco di imprevedibilità con Shirley Dander, la nuova arrivata con problemi di rabbia e dipendenza che incarna tutta la vulnerabilità di questi “cavalli lenti”.
Il segreto di questo ricco ensemble sta nel perfetto equilibrio tra realtà e ironia. Nessun personaggio è un semplice stereotipo. Anche il più grottesco ha una dimensione emotiva, anche il più integerrimo nasconde fragilità. È questa la magia della serie: ogni spia, anche quella fallita, racconta una parte di noi.
Regia e sceneggiatura
La regia riesce a restituire il ritmo tipico del thriller senza mai perdere il realismo umano. Ogni episodio è costruito con una tensione calibrata, alternando momenti di pura suspense a dialoghi che sdrammatizzano con humour tipicamente inglese. L’uso dei colori freddi e della fotografia desaturata restituisce i toni cupi di un’Inghilterra spenta e burocratica, dove il grigio diventa la tonalità dominante del mondo delle spie scadute.
Sul piano della scrittura, Slow Horses si distingue per una sceneggiatura brillante, tagliente e mai banale. Gli sceneggiatori, a partire da Will Smith (non l’attore, ma l’adattatore dei romanzi di Mick Herron per la TV), sono riusciti a tradurre il linguaggio ironico e velenoso dei libri in un prodotto televisivo elegante, complesso e accessibile. I dialoghi sono spesso il motore del ritmo narrativo. Si passa da scambi cinici e comici a momenti di grande introspezione senza mai perdere coerenza.
Gary Oldman e l’arte di essere Jackson Lamb
Capitolo a parte per questo attore che ha reso incredibile questo personaggio. In Slow Horses, Gary Oldman regala una delle interpretazioni più eccentriche e memorabili della sua carriera. Dopo aver incarnato diverse tipologie di personaggi l’attore si lascia andare al caos controllato di Jackson Lamb. Un capo dell’intelligence britannica sciatto, sboccato e geniale, un uomo che sembra aver abbandonato ogni ambizione ma che, nella realtà, vede più lontano di chiunque altro.
“È un personaggio repulsivo ma irresistibile“, ha raccontato ridendo. “Lamb è una mente brillante sotto strati di nicotina, whisky e sarcasmo“.
Oldman ha più volte spiegato che Lamb è per lui un ruolo liberatorio, quasi catartico. Dopo anni di ruoli compressi dalla rigidità storica o drammatica (da Winston Churchill in L’ora più buia a George Smiley in La talpa) si è concesso la libertà di essere “sporco, indisciplinato, imprevedibile”. In varie interviste ha ammesso di considerare Jackson Lamb uno dei suoi personaggi preferiti di sempre, perché gli permette di “togliere ogni filtro e giocare con l’umanità imperfetta“.
Fisicamente, Oldman costruisce Lamb partendo dal degrado. Calze bucate, giacca spiegazzata, sigarette ovunque, occhi cavi di stanchezza. Eppure, dietro quell’aspetto trasandato c’è una meticolosa attenzione al dettaglio. “Sembra dormire in ufficio, ma in realtà lavora più di chiunque altro”, racconta Oldman. È il contrasto costante tra apparenza e sostanza che fa di Lamb un personaggio magnetico. La caricatura dell’antieroe britannico ma anche uno specchio della società che lo circonda.
Mick Herron, autore dei romanzi originali, ha definito Lamb “un Bond fallito, un agente che ha visto tutto e non crede più in nulla”. Oldman ne amplifica le sfumature, trasformando ogni insulto in un gesto di verità, e ogni silenzio in una riflessione sull’ipocrisia del potere.
Ironia, malinconia e il carisma del caos

Non a caso, i fan di Slow Horses amano Lamb perché è quello che dice apertamente ciò che gli altri tacciono. È politicamente scorretto, insofferente e insieme profondamente umano. “Non segue le regole, non ha standard sociali, eppure fa la cosa giusta nel momento giusto“, osserva Oldman. La sua è una ribellione ironica ma etica, un disprezzo per l’autorità che diventa motore morale.
Dal punto di vista interpretativo, Oldman gioca costantemente con la sottile linea che separa la comicità dalla malinconia. Il suo è un lavoro di cesello, fatto di tempi, gesti e pause. Uno sguardo stanco, una spalla abbassata o un sorriso appena accennato svelano più di mille parole. Nel celebre episodio ambientato in un cimitero, Lamb rimane in silenzio per un tempo infinito: una scena minimalista che molti critici descrivono come una lezione di recitazione pura.
Oldman riesce inoltre a rendere Lamb irresistibilmente comico senza scadere nella caricatura. Le sue battute, intrise di sarcasmo e ferocia, hanno sempre un fondo di verità. Quando ridicolizza un collega o un dirigente dell’MI5 mette a nudo un sistema che si regge sulla vanità e sull’incompetenza. Il pubblico ride ma riconosce la disillusione autentica che si nasconde dietro ogni battuta.
L’anima di Slow Horses
In fondo, Jackson Lamb è molto più che il protagonista di Slow Horses: è la sua coscienza. Nel suo disordine e nella sua disillusione convivono ironia, moralità e affetto per un’umanità fallibile ma tenace. Lamb è lo specchio in cui la serie riflette la propria poetica. Perché ride del fallimento per poter sopravvivere, affrontare il potere con sarcasmo, e continuare a credere che, anche nel caos, possa celarsi un barlume di giustizia.
Gary Oldman cattura tutto questo con maestria assoluta, diventando non solo il volto della serie ma la forza vitale che la tiene insieme. È lui la ragione per cui Slow Horses non è soltanto una storia di spie emarginate, ma un ritratto umano e irresistibilmente vero di chi non smette di combattere, anche quando non crede più nella vittoria.
L’identità unica di Slow Horses: anti-glamour e realismo britannico
Ed è proprio in questa sua sporcizia morale ed estetica che Slow Horses trova la sua identità. Una serie che non ha mai cercato di piacere, ma di raccontare la verità. Cruda, disincantata, profondamente britannica. Slow Horses rappresenta il lato più crudo e meno patinato del mondo dello spionaggio: niente alcolici di lusso o gadget scintillanti. Gary Oldman scherza definendo Jackson Lamb come il tipo che “scoreggia in pubblico senza problemi”, sottolineando come la serie stia volutamente lontana dal glamour hollywoodiano per abbracciare un realismo sporco, talvolta sgradevole, ma estremamente autentico.
Questa scelta è stata premiata dal pubblico perché offre una narrazione che va controcorrente rispetto ai classici spy thriller, mostrando spie imperfette, spesso fallibili e molto umane. Jay Hunt, dirigente di Apple TV+, definisce la serie come un mix irresistibile di humour britannico e azione ad alto tasso di adrenalina, evidenziando come questa formula abbia creato una comunità di fan fedele in tutto il mondo.
La BBC ha paragonato lo sviluppo della serie a quello di Breaking Bad, in termini di capacità di raccontare una crescita lenta e continua, senza strappi né involuzioni, arrivando a costruire un universo seriale coerente e ben articolato.
Un cult che migliora come un buon vino
Dalla sua prima stagione al quinto capitolo, Slow Horses ha dimostrato di essere molto più di una spy story: è un racconto umano, ironico e profondamente politico, capace di conquistarci attraverso una scrittura brillante, personaggi indimenticabili e una qualità costante.
L’affermazione come cult della TV contemporanea è più che meritata e certificata da critici, spettatori e premi. Il successo di Slow Horses è la prova che una serie può crescere e migliorare nel tempo, proprio come un buon vino che, migliorando sapore e corpo ad ogni stagione, finisce per conquistare tutti. Davvero tutti.







