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Tulsa King 3 non vuole essere una serie come tante altre: la Recensione della prima puntata, ora su Paramount+

Il generale Manfredi attende il momento durante la festa di San Gennaro

ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste incappare in spoiler su Tulsa King 3.

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Tulsa King 3 è tornata! Lunga vita al King! Lo scorso 21 settembre su Paramount+ è uscita la première che sembra cucita apposta per rassicurare i fan e, al tempo stesso, lanciare nuove sfide narrative. La serie creata da Taylor Sheridan e guidata sullo schermo da Sylvester Stallone non perde un colpo nel suo tratto distintivo: un cocktail di crime drama, ironia leggera e momenti da saga familiare che funzionano come colla emotiva. Ma se nelle stagioni precedenti lo show si era concentrato soprattutto sull’assestamento di Dwight Manfredi nella nuova realtà di Tulsa, ora la storia ingrana una marcia diversa.

Questa terza stagione parte infatti da un presupposto chiaro: il Re non può più limitarsi a sopravvivere o a costruirsi un angolo di potere. Deve difenderlo, espanderlo e affrontare minacce sempre più pressanti. L’arrivo dell’FBI con le sue pretese di collaborazione forzata, il salto di qualità nel business (dalla cannabis artigianale alla produzione di bourbon, simbolo profondamente americano), e l’ingresso in scena di un nuovo antagonista interpretato da Robert Patrick delineano subito una stagione che non ha paura di alzare la posta in gioco.

La première non è solo un episodio di raccordo con la stagione passata, ma un vero manifesto programmatico. Fa rientrare i personaggi amati dal pubblico, rinforza la coralità con gag e interazioni che sembrano quasi improvvisate nella loro naturalezza. E al tempo stesso lascia intravedere un orizzonte più cupo, in cui la leggerezza della banda dovrà misurarsi con la violenza senza regole dei nuovi nemici. Il risultato è un episodio che diverte, emoziona e incuriosisce, riuscendo a essere leggero senza scadere nel superficiale. Tulsa King 3 promette quindi di rimanere fedele a sé stesso, ma con l’ambizione di sorprendere chi lo segue con un equilibrio sempre più sottile fra risata e colpo allo stomaco.

Tulsa King 3: marchio di fabbrica registrato

La regia della prima puntata mantiene il passo della serialità di Taylor Sheridan e della squadra creativa. Tutto è pulito, studiato per valorizzare i volti e i movimenti dei personaggi. C’è una cura del dettaglio molto americana, che funziona alla grande: la distilleria, le feste di Little Italy, i ranch, eccetera. Persino l’autosalone. Sheridan e il gruppo riescono ancora a mescolare toni diversi senza mai far esplodere il gioco. Il risultato è quasi sempre armonico e, quando la commistione stride, lo fa con un perché drammaturgico che non risulta mai gratuito. La scelta di alternare scene intime come il dialogo di Dwight con Margaret e la festa di San Gennaro, a set più da scontro crea un ritmo piacevole che evita l’effetto “troppo serio” e mantiene la serie leggera ma solida.

La direzione di scena è particolarmente brava nel rendere naturale il passaggio dalla quotidianità alla violenza: la sequenza di Manfredi che spiega ai nipotini chi è San Gennaro e poi si presenta da un boss come se stesse tornando a casa è un piccolo gioiello di regia e montaggio che non mostra lo scalino tra i due mondi, eppure lo fa sentire in tutta la sua evidenza. Questa capacità di far convivere due registri, il domestico e il criminale, è una delle colonne portanti del tono della serie.

La sceneggiatura: c’è chi ride e chi brucia

I tre nuovi soci guardano il loro oscuro futuro in Tulsa King 3
Credits: Paramount+

La sceneggiatura di questa prima puntata è funzionale e compatta: non perde tempo e piazza subito i conflitti chiave. L’idea di far passare l’impero di Dwight da marijuana ad alcol sposta il gioco su un terreno nuovo e ancor più americano, con il bourbon come simbolo e la distilleria come teatro di guerra economica e simbolica. L’introduzione dei Dunmire e del loro patriarca Jeremiah, interpretato con cipiglio da Robert Patrick, accende immediatamente una posta in gioco che sa di vecchia scuola: terra, soldi, onore e vendetta.

Uno dei fili più interessanti è quello dell’FBI. La messa sotto scacco di Dwight da parte dell’agente Musso (Kevin Pollak) porta in scena una dinamica di ricatto morale che dà profondità al protagonista. L’ipotesi che l’FBI voglia usare Manfredi come braccio armato per compiere azioni che altrimenti non potrebbe è intrigante e apre a sviluppi narrativi proficui. La sceneggiatura qui gioca bene la carta del dubbio morale: Dwight non è un santo, ma la serie riesce a mostrare la sua complessità senza chiedere troppo allo spettatore in termini di spiegazioni.

Detto questo, la scrittura non è sempre perfettamente bilanciata. La tendenza a oscillare tra dramma solido e gag alla Get Shorty crea qualche sbilanciamento tonale. Ci sono momenti in cui l’ironia funziona egregiamente e altri in cui sembra di assistere a sketch più che a scene drammatiche vere e proprie. Nel complesso, però, la prima puntata costruisce buone premesse, mette in campo pezzi importanti e lo fa con ritmo.

È sempre bello ritrovare i vecchi amici

Sylvester Stallone resta il centro gravitazionale. Non ha bisogno di gridare per occupare lo schermo, e la sua presenza è la bussola emotiva della serie. Sa essere burbero e tenace, tenero nelle poche scene domestiche e glaciale quando serve. Stallone gioca il ruolo del mafioso alla vecchia maniera, con una credibilità che sorprende ancora. Soprattutto perché non si appoggia solo alla reputazione di action star, ma costruisce sfumature.

La squadra attorno a lui è ben assortita. Martin Starr (Bodhi) e Jay Will (Tyson) danno il lato comico e imbranato del gruppo, ma anche momenti di reale tensione. Come nella scena in cui Bodhi minaccia l’uomo legato alla morte di Jimmy che risulta inaspettata ma coerente e per questo rimane impressa. Garrett Hedlund (Mitch) guadagna spazio e sfaccettature: è meno a suo agio nella concessionaria ma più efficace quando la storia chiede spinta e cuore. Dana Delany come Margaret continua a dare ancoraggio emotivo al personaggio di Dwight, cambiando lo stereotipo della donna del boss in qualcosa di più complesso. L’ingresso di Robert Patrick come Jeremiah Dunmire è un’aggiunta azzeccata. Il suo volto tagliente e la sua capacità di creare minaccia immediata danno subiti l’idea che siamo di fronte a un antagonista credibile e viscerale.

E Frank Grillo si conferma carismatico quando appare sullo schermo, dando agli scontri verbali con Stallone un gusto corposo e pieno. Nel complesso il cast funziona come un meccanismo: alcuni pezzi sono più lucidi e altri un po’ più grezzi, ma la somma è superiore alla singola parte.

Tulsa King 3: molte luci e qualche ombra

Tyson e Big Foot sono i guardaspalle di Dwight in Tulsa King 3
Credits: Paramount+

Tulsa King 3 si muove su un terreno che alterna conferme e fragilità, con un equilibrio non sempre impeccabile ma indubbiamente affascinante. Da un lato c’è la mano inconfondibile di Taylor Sheridan, capace di intrecciare elementi profondamente americani con il mondo criminale contemporaneo, costruendo un immaginario che risulta autentico e riconoscibile.
A questo si aggiunge la forza corale della banda di Dwight, irresistibile nel suo bilanciare comicità e tensioni. Dalle gag sull’auto sgargiante di Bodhi agli sfottò tra Tyson e Big Foot, fino alla scena esilarante della ricarica elettrica in cui Grace inciampa. Sono momenti che sembrano piccole parentesi, ma che in realtà donano ai personaggi una vitalità quasi quotidiana, smontando la maschera da gangster e restituendo loro una dimensione umana.

Parallelamente, però, la scrittura non dimentica il lato più cupo, introducendo subito archi narrativi forti. Il ricatto dell’FBI, che costringe Dwight a una collaborazione forzata e promette dilemmi morali sempre più intricati. E l’arrivo dei Dunmire, nemici brutali e privi di codici che incendiano tenute e spargono sangue senza esitazioni, creando un contrappunto feroce alla famiglia disfunzionale di Dwight. Il risultato è una prima puntata che alterna leggerezza e pericolo, riuscendo spesso a tenere insieme i due registri con intelligenza.

Infine, in certi momenti viene fuori il nodo che riguarda la centralità di Stallone. Dwight è il cuore pulsante della storia, ma quando tutto gira intorno a lui, le potenzialità degli altri personaggi finiscono per rimanere in ombra. La serie dà il meglio quando la banda agisce come un organismo corale. Per questo sarebbe interessante concedere più spazio e più peso ai comprimari, arricchendo la narrazione senza intaccare il carisma del protagonista.

Tulsa King 3: non è una serie come tante altre

La prima puntata di Tulsa King 3 non ti conquista per la trama in sé o per gli effetti speciali. Né per le scene d’azione, che comunque ci sono e sono girate con cura. Ma per l’atmosfera che riesce a creare, per quel tono particolare che accompagna lo spettatore dall’inizio alla fine dell’episodio. È un esordio che riesce a farti ridere anche mentre parla di morte, a emozionarti mentre discute di affari sporchi: capovolge le prospettive emotive con grande abilità. Sheridan e il suo team costruiscono un universo dove l’America profonda con i suoi riti, le feste di quartiere e le tradizioni si mescola al presente fatto di ricatti e sparatorie, e lo fanno lasciando spazio a interpreti esperti che, scena dopo scena, hanno la possibilità di brillare senza trattenersi.

Proprio questa leggerezza, che non significa superficialità, è la vera forza di questa première. L’episodio non ha paura di alternare dramma e ironia, regalandoci un intrattenimento che non si prende mai troppo sul serio e che proprio per questo riesce a lasciare il segno. Nel panorama televisivo odierno, spesso ingessato da titoli cupi e autoreferenziali, questa puntata iniziale si presenta come una boccata d’aria fresca. Ha il sorriso scanzonato di un sigaro acceso e insieme la tensione latente di una pistola nascosta nel cappotto.

Il ritorno sullo schermo è quindi un biglietto da visita perfetto per la stagione che verrà: la puntata piazza subito i nuovi conflitti senza dimenticare le gag corali che alleggeriscono i toni. Si ride, ci si sorprende e allo stesso tempo si percepisce il pericolo dietro l’angolo. È questa combinazione, gestita con mestiere, a trasformare Tulsa King 3 in qualcosa di più di una semplice serie.