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Tulsa King 3×07 – Quando il boss diventa un filosofo

Dwight parla con Margreth mentre Bigfoot ascolta e gli protegge le spalle

ATTENZIONE: il seguente articolo contiene spoiler su Tulsa King 3.

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Dopo l’esplosione di Bubbles, la settima puntata di Tulsa King 3 cambia ritmo ma non intensità. The Art of War è un episodio strategico, mentale, quasi politico, in cui Dwight Manfredi conferma di essere molto più di un boss. È un leader illuminato, un uomo che ha imparato a sopravvivere e comandare non solo con la forza, ma con la cultura, la pazienza e la visione.
Gli autori costruiscono un capitolo meno rumoroso ma più raffinato, un gioco di scacchi dove ogni mossa è calcolata e ogni personaggio scopre qualcosa di sé. Se l’episodio precedente era l’urlo, questo è il silenzio prima del colpo perfetto. E Dwight lo sferra con eleganza.

Dwight Manfredi, il capo che legge Sun Tzu

In Tulsa King 3, Dwight dimostra ancora una volta di essere un capo, non solo un criminale. Quando lo vediamo manovrare la sua rete di contatti, sfruttare le falle istituzionali e far crollare il Procuratore Generale con un solo gesto, capiamo che non è l’ennesimo boss televisivo. È un uomo che ha usato il tempo in prigione per diventare altro.
Dwight non ha perso gli anni dietro alle sbarre: li ha investiti leggendo, studiando, ragionando. The Art of War non è solo il titolo dell’episodio, è il suo manifesto interiore. Dove gli altri agiscono come bestie, I Dunmire e Quiet Ray, lui pensa da uomo. E in un mondo di ignoranti armati, la cultura diventa l’arma più letale.

Sheridan ha l’idea geniale di usare Tulsa e l’Oklahoma come il terreno perfetto per questa evoluzione. Lontano da New York, Dwight può finalmente mettere a frutto ciò che ha imparato, unendo cervello e istinto, parole e potere. È la dimostrazione che non basta comandare: serve comprendere. E lui lo fa, osservando e anticipando tutti.
La sua etica del comando è semplice ma rivoluzionaria: far stare bene chi lavora per te, perché solo così puoi prosperare tu stesso. È capitalismo mafioso con un tocco di umanità, e funziona proprio perché Dwight non è un sadico ma un capo che sa ascoltare. Quando chiede a Bigfoot se sia felice del suo lavoro, gli autori ci mostrano tutta la differenza tra chi vuole solo obbedienza e chi vuole costruire lealtà.

Tulsa King 3: Il cuore della serie batte nei rapporti

Mentre Dwight orchestra le sue mosse politiche, l’emozione vera dell’episodio scorre nelle relazioni degli altri personaggi. Mostrando quello che gli autori sanno fare meglio: intrecciare il potere con l’umanità.
C’è Cole che si confronta con l’ombra del fratello morto e il giudizio del padre. Il loro rapporto è uno dei più forti di tutta Tulsa King 3. Il dolore di Cole, la crudeltà di suo padre Jeremiah, la costante sensazione di non essere mai abbastanza. Quando Cole parla con Spencer e le confessa che con lei sta bene, l’episodio si apre a un respiro inaspettato. Lei lo libera, lo fa pensare che ci sia altro oltre il fango in cui è cresciuto. È un momento di rara tenerezza in un contesto fatto di sangue e inganni.

Eppure gli autori non perdono mai di vista la sua struttura a specchio. Da una parte, mentre Cole sembra avere una possibilità attraverso l’amore, dall’altra Dwight si eleva attraverso la mente. Due uomini diversi, due forme di riscatto. Entrambi lottano contro un’eredità dalla quale vorrebbero emanciparsi. Uno contro il padre, l’altro contro il proprio passato mafioso.
Il risultato è un episodio che mescola intelletto e sentimento senza perdere ritmo, e che ricorda che Tulsa King 3 non è solo una serie sul crimine ma sul modo in cui le persone scelgono di affrontare il potere.

Un trio imprevisto

Goodie e Tyson si danno alla libera imprenditoria rapinando gli studenti del college
Chris Caldovino as Goodie and Jay Will as Tyson in Tulsa King, episode 7, season 3, streaming on Paramount+, 2025. Photo Credit: Brian Douglas/Paramount+.

Nonostante la parte più brillante dell’episodio resti quella di Dwight, Tulsa King 3 trova respiro e ironia nella sottotrama di Tyson, Goodie e Spencer. La loro dinamica è una piccola gemma di scrittura. Tre personaggi diversissimi che incarnano tre visioni del mondo criminale.
Tyson è in crisi: non sa chi è, non sa cosa vuole diventare. Dopo averne fatte di cotte e di crude adesso è in cerca una bussola. E la trova in Goodie, che assume il ruolo di mentore temporaneo. È un dettaglio geniale, perché accantona padri (Mark) e padrini (Dwight) creando una nuova sinergia che dà opzioni in più alla serie.
Goodie, che finora ha sempre auto un ruolo da comprimario, qui dimostra di avere una mente lucida, un’intelligenza pratica e persino una certa morale. È un mafioso con la testa e Tyson lo capisce. Non è Dwight ma è qualcuno da cui può imparare.

Spencer, in questo trio, non porta sensualità ma praticità.

È brillante, sicura di sé. Semplicemente all’altezza, pronta a sporcarsi le mani e a partecipare alla vita criminale con lucidità e coraggio. E diventa il grimaldello del gruppo. È lei, infatti, che apre le porte delle confraternite universitarie, spingendo Tyson e Goodie verso un mondo dove le regole sono più fluide e le opportunità meno rischiose.
Goodie, però, resta ancorato a un modello antico. Vuole solo i soldi e della droga non vuole saperne, perché sa che crea solo guai. Tyson e Spencer invece incarnano la nuova generazione: impulsivi, fiduciosi nei soldi facili. Convinti che tutto possa risolversi in fretta e con astuzia. Gli autori giocano su questo contrasto tra vecchio e nuovo modo di fare mafia, trasformando una scena apparentemente leggera in una piccola lezione di sopravvivenza criminale.

Jeremiah, il patriarca che crolla

La distanza che separa Cole da suo padre diventa sempre più incolmabile, su Tulsa King 3
Credits: Paramount+

Se Dwight sale, Jeremiah crolla. È l’asse opposto dell’episodio. All’inizio lo avevamo conosciuto come un uomo spietato, capace di bruciare un rivale vivo pur di restare al comando. Ora è solo un padre frustrato, chiuso in una prigione (reale e metaforica), ridotto a bullizzare il figlio e a rimuginare sulla propria rovina.
La scrittura degli autori non lo assolve ma lo lascia sospeso. Jeremiah è un uomo che credeva di poter dominare tutto e che ora non controlla più niente. La scena con la guardia in prigione è breve ma densa perché lascia intendere qualcosa di grosso, un colpo di coda possibile. Ma quanto peserà? È una domanda che resta aperta e prepara il terreno per il finale di stagione.

In Tulsa King 3, Jeremiah è lo specchio inverso di Dwight. Entrambi sono padri simbolici, ma dove il primo distrugge i figli, il secondo li fa crescere. Sheridan gioca con questa simmetria con intelligenza: due modi opposti di esercitare il potere, due destini che non potranno coesistere ancora a lungo.

L’arte della guerra, secondo Tulsa King 3

Alla fine, The Art of War non è solo un titolo evocativo ma una chiave di lettura per tutta la serie. Dwight applica i principi di Sun Tzu al crimine moderno: conoscere il nemico, colpire dove non se l’aspetta, vincere senza sparare.
La sequenza del Procuratore Generale, elegante, ironica e spietata, è un piccolo capolavoro di strategia narrativa. Viene messa in scena un’idea vecchia quanto la politica. Cioè, che il potere non si conquista gridando ma capendo (e sfruttando) le debolezze degli altri. E Dwight lo fa magistralmente.

L’episodio è meno esplosivo del precedente, ma più sofisticato. È come se gli autori avessero premuto pausa sull’azione per concentrarsi sulla mente. E il risultato è un capitolo denso, pieno di dialoghi memorabili, momenti di introspezione e piccole rivelazioni. Non serve sempre sparare per vincere una guerra: basta leggere il libro giusto, al momento giusto.

Il re filosofo

Tulsa King 3 continua a dimostrare che è una serie criminale solo in apparenza. In realtà, è un racconto di umanità, cultura e sopravvivenza. In The Art of War Dwight non domina con la violenza ma con la consapevolezza. Ha capito che se stanno bene gli altri sta sta bene anche lui, e questa è la sua vera rivoluzione.
L’episodio 7 è un momento di sintesi. Ha quella sorta di calma apparente e di preparazione alla resa dei conti. Tutto converge: i rapporti, le strategie, le alleanze. La scrittura orchestra con maestria un equilibrio raro tra emozione e logica, cervello e istinto. Tulsa King 3 ritrova il suo tono migliore, quello che la rende una serie capace di alternare esplosioni di violenza a momenti di pura intelligenza narrativa.

Con The Art of War, Tulsa King 3 firma uno dei suoi episodi più maturi e appaganti. Dwight Manfredi emerge come un leader di nuova generazione. Meno pistole, più cervello; meno paura, più visione. Taylor Sheridan disegna un mondo dove i boss non vincono con i proiettili ma con le idee. E Dwight è il suo manifesto vivente: un uomo che ha trasformato la prigione in università, la strada in laboratorio e la guerra in un’arte raffinata. La sua ascesa non è più solo criminale: è culturale. E in un mondo dove tutti sparano a caso, lui resta l’unico che sa quando, e perché premere il grilletto.
Il re è tornato, e adesso combatte anche con la mente.