ATTENZIONE: il seguente articolo contine spoiler su Tulsa King 3×09.
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Se c’è una lezione che Tulsa King 3 ci ripete con ostinazione da nove episodi a questa parte, è che il vero potere non risiede nella violenza ma nella capacità di farla sembrare inevitabile. E nell’episodio 9, Dead Weight, questa lezione si trasforma in poesia criminale. Non una poesia urlata, né sanguinolenta. Semmai come sussurrata tra due vecchi amici davanti a un whisky, con le pistole appoggiate sul tavolo come posate dimenticate. In un’epoca in cui le serie TV si affannano a stupire con colpi di scena sempre più roboanti, Tulsa King 3 sceglie un’altra strada: quella del calcolo, della fedeltà, e del peso morale che nessun contratto può alleggerire.
Dead Weight è tecnicamente un episodio ponte, il penultimo di una stagione che ha navigato un po’ a vista tra sottotrame dimenticate, alleanze volatili e personaggi introdotti per poi sparire nel nulla (guardando te, Bevilaqua). Eppure, grazie all’arrivo di un attore che ha ridefinito il concetto stesso di presence cinematografica, Samuel L. Jackson, l’episodio si eleva a un livello diverso. Non è solo intrattenimento: è un rito di passaggio. Per Dwight. Per Jeremiah. E forse, per tutta la stagione. Se non tutta la serie.
Tulsa King 3: Dwight e Lee, due vecchi re che non hanno più tempo da perdere
La vera anima di Dead Weight è l’incontro tra Dwight Manfredi e Russell “Lee” Washington, interpretato con una calma micidiale da Samuel L. Jackson. Non c’è fan service, non c’è strappo alla regola: c’è storia. Questi due si conoscono da decenni, si sono salvati la vita a vicenda in prigione, e ora si ritrovano a Tulsa con un conto aperto e un sicario alle calcagna. Il bello è che nessuno dei due ha intenzione di uccidere l’altro. Lee arriva con un contratto firmato da Quiet Ray ma lo consegna a Dwight come fosse un invito a cena: “Se volessi davvero ucciderti, saresti già morto”.
È una delle frasi più potenti di tutta Tulsa King 3 perché ribalta il codice del genere. Non si tratta di chi spara per primo ma di chi sceglie di non farlo. Lee non è un cattivo in cerca di rivalsa, né un alleato d’occasione: è l’eco del passato di Dwight, venuto a ricordargli che gli anni passano, ma i debiti no. E quando i due affrontano insieme i sicari di New York non stanno combattendo per sopravvivere. Stanno dimostrando che certi uomini non hanno bisogno di gridare per farsi rispettare.
Questa è la maturità di Tulsa King 3. Capire che il climax non è sempre un’esplosione, ma a volte è un silenzio carico di storia.
Tulsa King 3: il colpo di genio economico di Dwight sta nel comprare e non uccidere

Mentre l’episodio 8 si chiudeva con un paio di atti di violenza estrema (Deacon sepolto vivo e la bomba in albergo), l’episodio 9 mostra che Dwight ha già vinto senza alzare un dito. La sua mossa geniale? Usare la confessione di Deacon come leva su Musso per ottenere la licenza federale per la vendita di alcolici. Non una pistola, non una minaccia: un documento. E con quello, trasforma la Montague Distilleries in un colosso capace di distruggere economicamente Jeremiah Dunmire.
La scena in cui Cole informa il padre che sei distributori li hanno abbandonati, e che le loro scorte tornano indietro invendute, è un momento di rara potenza drammatica. Jeremiah, un tempo temuto, viene ridotto a un vecchio furioso che spacca alambicchi con un’ascia. Non è più un boss: è un fantasma del proprio impero. E Cole, che un tempo tremava al suo cospetto, ora lo osserva con pietà e compassione. Quello che vede non è più qualcuno da temere ma un vecchio genitore che ha fatto il suo tempo e sta per essere spazzato via.
Tulsa King 3 ci ricorda così che, in un mondo globalizzato, il crimine non si combatte più con le armi ma con le quote di mercato. Dwight non vuole solo sopravvivere: vuole ereditare il sistema. E lo sta facendo, passo dopo passo, con la pazienza di chi sa che il tempo è l’alleato più fedele.
Cole e Tyson: due modelli di crescita (o di deriva)
Mentre Dwight gioca a scacchi con gli dèi, Cole Dunmire sta imparando a giocare con se stesso. Dopo il suo atto di tradimento silenzioso nell’episodio 8, avvertire Spencer della bomba, qui diventa il testimone del crollo paterno. Non agisce per vendetta, né per ambizione: agisce per umanità. E questo lo rende il personaggio più interessante della stagione. Non è un anti-eroe, né un ribelle: è un uomo che sceglie di non diventare suo padre. E in un genere che ama i figli che uccidono i padri questa scelta è rivoluzionaria.
Al contrario, Tyson continua a navigare in una sottotrama che sembra più un esperimento di scrittura che una trama coerente. Il suo giro di ecstasy con Spencer è tecnicamente “crescita imprenditoriale” ma manca di posta in gioco reale. Bodhi lo incoraggia a “cucinare, non rubare” ma tutto ciò serve più a dare movimento ai secondari che a costruire un vero arco. Resta un personaggio simpatico ma ancora troppo leggero per reggere un peso narrativo significativo.
Joanne rapita: l’ultimo atto disperato di un re morente
Il rapimento di Joanne nell’ultima scena è la mossa più disperata di Jeremiah. E anche la più prevedibile. Dopo aver perso potere economico, alleati e credibilità, non gli resta che tornare alla violenza primordiale: colpire la famiglia del nemico. E in teoria, non potrebbe esserci scelta più logica. Joanne è la sorella di Dwight, il suo unico legame di sangue, l’unica persona con cui condivide un passato che va oltre il codice criminale.
Eppure, non sentiamo il fiato spezzarsi. Non perché il gesto non abbia senso ma perché la serie non ha mai fatto battere il cuore per Joanne. Non è Margaret, con cui Dwight condivide intimità, ironia e progetti futuri. Nemmeno è Spencer, in qualche modo legata a Tyson, e quindi al cuore pulsante della banda. Joanne è stata relegata a comparsa efficiente, una presenza funzionale più che emotiva. E così, quando Jeremiah la rapisce, il cliffhanger si regge su una logica di trama, non su una tensione umana.
Non è un problema di “chi è Joanne” ma di quanto la serie ci ha fatto capire quanto lei conti per Dwight. Se il finale dovrà strapparci un grido, non basterà ricordarci che è sua sorella: dovrà farci ricordare perché questo fa male. Altrimenti, il rapimento resta un colpo di coda teorico:efficace sulla carta ma freddo sullo schermo.
Tulsa King 3: questo penultimo episodio ha un ritmo troppo rilassato?

Dead Weight non è perfetto. La trama di Tyson/Spencer/Bodhi sembra aggiunta per riempire tempo, non per sviluppare personaggi. Cleo riappare solo per baciare Mitch in un gesto che però non ripara la sua sparizione narrativa. Musso e l’FBI hanno volteggiato nell’aria per poi non riuscire nemmeno a godersi la carcassa di Deacon.
Insomma, siamo alla fine della stagione, praticamente. E qualcosa non convince appieno, soprattutto per come si era partiti. Certo, l’arrivo di Samuel L. Jackson aiuta, e di molto, a ritrovare il tono che in certi episodi nel centro della stagione si era un po’ perso: la sua partecipazione è il viatico ideale per lanciare Nola King, lo spin-off che lo vedrà protagonista.
Tulsa King 3: il peso di ciò che resta
Dead Weight si chiude con un paradosso: più Dwight vince, più il mondo intorno a lui si sgretola. Ha il potere economico, l’appoggio politico (Thresher), un alleato storico (Lee) e persino la benedizione morale (la bomba non ha ucciso nessuno). Eppure, è più vulnerabile che mai. Perché ora Jeremiah non ha più niente da perdere e un uomo senza niente da perdere è il nemico più pericoloso.
Mancano solo un episodio alla chiusura Tulsa King 3, e tutto sembra convergere verso un finale che potrebbe essere definitivo o solo un passaggio verso una stagione 4 già confermata. Ma una cosa è certa: il vero peso morto non è Lee, né Deacon, né Quiet Ray. È il passato di Dwight — e la domanda non è se riuscirà a sbarazzarsene, ma se vorrà farlo davvero.
Perché in fondo, in Tulsa King 3, il crimine non è un mestiere ma è un’identità. E Dwight, per quanto si sforzi di costruire un impero legittimo, sa bene che non si smette mai di essere ciò che si è stati.






