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The Walking Dead: Dead City 2 non è riuscita a convincere nemmeno nel suo finale di stagione. A conti fatti, la prima stagione risulta superiore alla seconda, forse perché c’era la promessa di vedere tutte quelle premesse narrative finalmente prendere forma. Forse perché Dead City, dopo la calma di Daryl Dixon, sembrava riportare un po’ di quel sano, necessario caos narrativo. Eppure, come già evidenziato nella scorsa puntata (che potrete recuperare qui), ogni promessa si è rivelata inutile. Tutto, nel corso della seconda stagione, si è sgretolato, lasciandoci in mano un pugno di cenere fatta di illusioni disattese e decisioni prese solo perché “così doveva andare”. E anche questo finale di stagione non fa eccezione: le cose accadono in un certo modo non per logica narrativa, ma perché devono accadere così.
Perché Maggie, dopo aver sbandierato un profondo desiderio di vendetta verso l’assassino di suo figlio, decide improvvisamente di risparmiarlo? Perché – semplicemente – Negan non può essere eliminato in questo sequel. È l’unico elemento che ancora regge l’intera struttura (come dicevamo qui). L’unico motivo per cui puntate spesso inconcludenti riescono ancora ad attirare l’attenzione, anche se tutto intorno crolla. Come, del resto, ogni singolo aspetto di questa seconda stagione.
L’unico personaggio in grado di emergere davvero anche senza il supporto di Negan non ha ricevuto lo sviluppo che meritava, finendo per abbandonare la scena nel modo più deludente possibile

L’avevamo notata per il suo silenzio carico di fascino, ma sempre ancorato a una dimensione concreta, mai forzata. Stiamo parlando di Ginny, l’unico personaggio – escludendo ovviamente Negan – ad averci davvero conquistati nel corso di queste due stagioni (ne avevamo parlato qui). Non abbiamo mai riposto troppa fiducia nel suo sviluppo, e siamo rimasti scettici sul destino che la Serie Tv le avrebbe riservato. E avevamo ragione.
Purtroppo, The Walking Dead: Dead City 2 non ha fatto nulla per smentirci, portando avanti quella tradizione stanca che vede i personaggi più interessanti uscire di scena prima ancora che possano davvero lasciare il segno. Lo avevamo già visto in Daryl Dixon, e lo abbiamo tragicamente rivisto anche qui. Ginny, dopo essersi presentata con grande potenziale, ha iniziato ad affievolirsi fino ad annullarsi completamente. La sua morte – la fine di tutto ciò che rappresentava – avviene fuori campo. Tutto ciò che sappiamo è che nulla di ciò che era rimane in vita.
Con il suo bagaglio emotivo stratificato e il rapporto instabile, fatto di amore e rifiuto nei confronti di Maggie e Negan, Ginny aveva il potere di influenzare i protagonisti, di metterli spalle al muro davanti alle loro fragilità più profonde. Lei, da sola, era il passato di Negan. Il suo potere. Il suo controllo. La sua forza ma anche la sua fragilità. Era tutto. Uno specchio in cui Negan intravedeva il proprio riflesso, frammentato in mille schegge: alcune crudeli, altre sorprendentemente umane. Come accade a tutti. Ma ora quella magia è svanita, e ha lasciato il posto a un incubo: uno dei più grossolani errori narrativi di questo finale di stagione. Il saluto – per nulla necessario – all’unico personaggio che avrebbe davvero potuto reggere il confronto con Negan.
Nella prospettiva del sequel, la morte di Ginny è stata ‘funzionale’: ha rappresentato un punto di svolta per la trama. Una giustificazione alla mancata vendetta di Maggie nei confronti di Negan. La donna è consapevole del peso che quella perdita ha avuto sull’assassino di suo marito, e per questo sceglie di non agire. Di lasciarlo vivere. Forse perché morire sarebbe stato troppo semplice, e il vero castigo è convivere con quel dolore. Forse perché ha capito che c’era già abbastanza oscurità per aggiungerne altra. Ma la sostanza non cambia: un personaggio di valore è stato sacrificato in nome di una soluzione ‘furba’, pensata unicamente per risolvere il nodo narrativo del sequel, senza dover affrontare la vendetta nei confronti dell’unico personaggio che ancora regge le fondamenta instabili dell’intera storia.

Ed è questo, in sostanza, il vero nodo di questo finale di stagione: un tentativo di furbizia maldestro, che non ha funzionato. Perché essere astuti significa saper celare la mossa. Significa ottenere il risultato senza che gli altri ne colgano la manipolazione. Significa avere ragione, trovare il giusto compromesso narrativo. Ma nulla di tutto questo è accaduto. Coerentemente con quanto visto finora, anche il finale si è rivelato confuso, disordinato, costantemente impegnato a ribadire concetti già ampiamente espressi e del tutto incapace di mascherare i suoi compromessi. Compromessi fragili, esibiti senza eleganza, troppo concentrati a dare una forma agli eventi, senza preoccuparsi della sostanza.
E questo è stato, in definitiva, il limite dell’intera seconda stagione. Il limite di questo epilogo: voler apparire furbi senza riuscirci, cercare di giustificare l’ingiustificabile, insistere su personaggi passivi e inconsistenti come Maggie, ridotta in questo sequel a una versione sbiadita di se stessa, priva di tensione interna, incapace di generare conflitto.
The Walking Dead: Dead City 2 non ce l’ha fatta, e non è una sorpresa. Ma speravamo che, almeno con i titoli di coda, trovasse un guizzo di coraggio, un’ultima scintilla di fermezza, una scelta narrativa decisa. Invece ha fatto esattamente il contrario: si è mostrata incapace di visione, priva di arguzia, e ormai svuotata della volontà di dire qualcosa. Il finale lascia sì aperte le porte a un futuro, ma è un futuro che appare già annebbiato, superfluo, forzato. Dead City 2 ha già detto tutto ciò che aveva da dire. Lo ha fatto nella prima stagione, e persino nella sua prima puntata. Da lì in poi, ha semplicemente continuato a ripetersi. Non ha aggiunto nulla. Nulla di nuovo, nulla di diverso, nulla di rilevante.
Tutto è andato esattamente come temevamo: nessuna sorpresa, nessuna svolta, nemmeno un finale che potesse essere definito brutto o bello. Solo un finale mediocre. Vuoto di significato, se non quello di strizzare l’occhio a una terza stagione che, oggi più che mai, non sentiamo il bisogno di vedere. Un’altra mossa furba. Un’altra occasione mancata per restare in silenzio.







