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Claire Danes e Matthew Rhys sono i protagonisti della nuova miniserie composta da otto episodi The Beast in Me, disponibile su Netflix dal 13 novembre. I due hanno dimostrato ancora una volta di essere degli attori semplicemente fenomenali ed è esattamente da loro che vogliamo iniziare la nostra recensione. In una manciata di minuti, infatti, i due artisti hanno saputo tratteggiare alla perfezione i loro personaggi e le relative contraddizioni. La Danes veste i panni di Agatha “Aggie” Wiggs, una scrittrice pluripremiata che conduce una vita solitaria a seguito della morte dell’unico figlio, Cooper. Una donna depressa, infelice, vulnerabile, il cui umore viene dolorosamente condizionato da quell’evento tragico che ha cambiato la sua vita per sempre.
Rhys è Nile Jarvis, un ricco imprenditore immobiliare dal passato oscuro. La sua prima moglie è scomparsa nel nulla in circostanze poco chiare, il caso è rimasto irrisolto e l’uomo sembra essere il sospettato numero uno. A causa dei continui pettegolezzi e delle speculazioni sul suo conto, ha preso la decisione di sparire dalla circolazione per un po’ ritirandosi in una villa in un quartiere lontano dal vociare chiassoso di New York. Nile si muove perennemente sul filo sottile dell’arroganza ostentata, caratteristica che contraddistingue molti di coloro che appartengono alla categoria dei milionari. Quelli – per intenderci – che credono che basti uno schiocco di dita per modificare, influenzare, corrompere una situazione o persino l’esistenza di una persona.
L’espressione beffarda di Matthew Rhys è allo stesso tempo irritante e misteriosa, affascinante e inquietante, tanto da farci dubitare a fasi alterne della sua colpevolezza in merito a ciò che è accaduto alla moglie Madison. Aggie e Nile diventano dunque vicini di casa ed è da questa premessa che prende avvio la miniserie.

Nonostante i primi due episodi abbiano un ritmo rallentato per non dire fermo, The Beast in Me si riprende e risplende a partire dal terzo episodio. C’è da dire che nel corso di questa puntata fa la sua prima apparizione una guest star d’eccezione – un certo Jonathan Banks – nel ruolo di Martin Jarvis, il padre del protagonista. Inoltre vediamo un più ampio coinvolgimento dell’agente dell’FBI Brian Abbott (interpretato da uno stralunato e convincente David Lyons, in precedenza il biondo Dr. Brenner di E.R.). Questo personaggio contribuisce a tenere alta la tensione tramite una caccia al topo sempre più serrata intorno alla figura di Nile. Un punto a favore della miniserie è la scrittura della sceneggiatura, che non segue un andamento lineare composto da indizi, indagine e risoluzione.
La trama è funzionale piuttosto nel mostrarci il meccanismo comportamentale degli esseri umani, nei quali la coscienza vive in uno stato di costante frammentazione. Verità, menzogna, senso di colpa, egocentrismo, rabbia e necessità di sopravvivenza sono i pezzi di questo specchio sbriciolato, in cui i protagonisti si astengono dal riflettersi in modo da evitare di affrontarsi. Lo showrunner Howard Gordon (Homeland – Caccia alla spia) è stato abile nello scegliere una narrazione più intima e malinconica, rinunciando ai colpi di scena tipici del genere thriller, in favore di una storia che scava nell’animo di Aggie e Nile fino a farne emergere i lati più bestiali (da cui il titolo della fiction).
Un altro elemento degno di attenzione e di elogio è l’aver sovrapposto la trama di The Beast in Me alla biografia che Aggie scrive nel corso dello show. Ogni episodio infatti simboleggia il capitolo di un libro e mentre i pensieri dell’autrice diventano lettere, parole e riflessioni, noi spettatori ci ritroviamo nella mente della donna che diviene portavoce di una specie di coscienza collettiva catartica. Scrivere a volte può essere un modo per ripulirsi, selezionare dentro di sé ciò che è stantio per poi sbarazzarsene una volta per tutte. E Nile, nel bene o nel male, obbliga Aggie a confrontarsi con i propri scheletri nell’armadio.

Il feeling tra l’uomo e la donna si intensifica puntata dopo puntata fino a che il loro rapporto si fa specchio. Non è un caso che in molte inquadrature e ambientazioni questo divenga un oggetto di scena ricorrente, sdoppiando le figure dei personaggi in due metà che si completano. Nile e Aggie si scrutano, si confidano, si indagano vicendevolmente. Tuttavia da entrambe le parti il confine tra sincerità e utilitarismo è molto sfumato.
Sia Rhys che la Danes sono diventati maestri del continuo cambio di maschera, della manipolazione, del doppio gioco camuffato da gentilezza e interesse privo di autenticità. Il fine di Aggie infatti è quello di scoprire una volta per tutte la verità sul conto della moglie di Nile, mentre quest’ultimo vuole fingere di essere un individuo per bene, persino generoso, così da portare alla luce una nuova immagine pubblica di sé. Se la chimica dei due attori è questa, noi non possiamo che volerne altre di opere come The Beast in Me.
La miniserie Netflix abbraccia poi argomenti di natura politica e sociale, quali il divario di classe (“I milionari sono come il veleno”) e la corruzione nell’edilizia. Tutte tematiche che noi spettatori conosciamo bene in quanto attuali e realistiche. Al netto degli evidenti pregi descritti fino a qui, dobbiamo a questo punto controbilanciare il nostro giudizio soffermandoci su di un paio di difetti non troppo severi. Come abbiamo scritto, l’eccessiva lentezza dei primi due episodi potrebbe farvi desistere dal proseguire la visione dello show, anche se vi consigliamo di insistere perché è una storia che si schiude poco a poco. La soluzione poteva essere quella di ridurre alcuni dialoghi, che a volte sono stati dilatati più del necessario.

Il ritmo intorpidito della narrazione resta comunque un dettaglio che si risolve da sé, così come la presenza di un paio di cliché tipici del genere. Introdursi di nascosto a casa di Nile, accedere al suo computer e trasferire in tutta fretta i files in una chiavetta USB è un qualcosa di già visto e rivisto decine di volte. Tuttavia la miniserie non presenta altre sbavature e, al contrario, quando entra nel vivo si fa parecchio intricata e imprevedibile.
Gli amanti di prodotti audiovisivi in cui la ricerca della verità non è azione ma logorante duello psicologico, troveranno soddisfazione nel fruire di questo thriller breve nella sua durata ma denso nella sua complessità. Una vicenda che apre interrogativi, li spolvera, li richiude per poi riaprirli nuovamente. Quando la realtà viene scardinata dalla bugia, si perde la conoscenza di sé stessi. Chi diventiamo quando ci raccontiamo delle falsità pur di non scavare nelle zone più oscure della nostra coscienza? Come fare per recuperare l’integrità perduta? The Beast in Me ci mette spietatamente davanti al nostro riflesso più distorto. Quello che ha poche possibilità di tornare a essere perfetto.







