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Non stare a guardare – La Recensione: un importante monito che si perde in se stesso

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La violenza domestica è una piaga subdola. Si nasconde in piazza, spesso dietro le negazioni di chi la perpetra, di chi la subisce e di chi la osserva da lontano. Spesso, troppo spesso, fingendo di non notarla, decidendo di girarsi dall’altra parte. Capita a ognuno di noi, prima o poi, di incontrarla da qualche parte: in una coppia di amici, nei vicini di casa, in matrimoni di vecchia data e in relazioni appena sbocciate. Ma tra il notare e l’agire c’è un abisso parecchio profondo, perché agire significa anche entrare in dinamiche che non sono le nostre. Eppure la violenza domestica non è una situazione personale. È un fenomeno sociale figlio della nostra storia e dei nostri tempi, ancora troppo lontani dall’essere davvero equi. E, come tale, va analizzata e raccontata, anche attraverso i prodotti d’intrattenimento. È proprio questo che Non stare a guardare si ripropone di fare.

Non stare a guardare è una serie sudcoreana che della Corea non mette in risalto la visione romanticizzata e idealizzata dei rapporti, ma lo spessore della loro facciata. Ispirata al romanzo Naomi and Kanako di Hideo Okuda e distribuita internazionalmente su Netflix venerdì 7 novembre, nelle sue 8 puntate della durata di circa un’ora ciascuna la serie non si nasconde dietro un dito e mette in chiaro fin dal principio – e fin dal titolo – i suoi intenti. Non vuole scoperchiare il vaso della violenza, vuole ricordare quanto questo vaso sia spesso trasparente e la violenza che contiene palese, ovunque e a chiunque. Ci riesce? Sì, ma con qualche riserva.

Due amiche unite da un destino comune

Le protagoniste di Non stare a guardare
Credits: Netflix

Jo Eun-su e Jo Hui-su sono due giovani donne amiche dai tempi della scuola. La prima lavora come commessa nel dipartimento VIP di un grande magazzino di Seul, a stretto contatto con la crème de la crème della città e con tutto il velo di falsa riverenza che a questa élite viene destinato – e che per inciso quest’élite non solo apprezza, ma pretende. La seconda invece ha sempre avuto il sogno di lavorare nell’editoria per bambini, ma la vita e in particolar modo il suo matrimonio l’hanno portata da tutt’altra parte. Lontana dal sogno dell’amore romantico, la sua relazione si è trasformata in un incubo, con un marito verbalmente e fisicamente violento che controlla ogni lato della sua vita. Niente è lasciato alla sua libertà, dal modo in cui si veste a ciò che fa tra le mura domestiche mentre lui non c’è.

Hui-su si sente braccata e le prova tutte: tenta di scappare via e addirittura di togliersi la vita. Noh Jin-pyo non le lascia scampo, la ritrova sempre, sa quali sono le debolezze su cui puntare per farla tornare indietro. A salvarla è proprio Eun-su, che la violenza la conosce e riconosce bene, perché ci è cresciuta dentro. L’ha vissuta in famiglia, con il padre che ha sempre picchiato sua madre, e l’ha vista sul lavoro con uomini facoltosi pronti a diventare mariti-padroni. Eun-su riconosce la violenza nella vita della sua migliore amica e decide di agire. Complici una tragedia e un incauto consiglio dato da un personaggio che fin da subito si coglie essere fondamentale, non solo la dissuade dal farsi del male, ma le propone quella che pare essere l’unica soluzione definitiva alla sua situazione: uccidere suo marito.

È a partire da questa proposta che Non stare a guardare smette di essere contesto e comincia a essere azione.

I primi due episodi della serie dipingono la storia e la personalità delle due protagoniste, dedicandosi con ordine e chiarezza prima a una, poi all’altra. Ne conosciamo le radici, l’incontro che ha permesso loro di trovarsi, le vicende adulte tra alti e bassi. Sono le puntate che ci permettono di dare contesto a un racconto specifico, a una storia personale che non può non essere influenzata dal luogo in cui si svolge, dalla società che la costruisce e ingloba. La vita che Hui-su e Eun-su si ritrovano a vivere è il frutto di un sistema più grande di loro che impone riverenza a mariti, padri, responsabili aziendali, persone più ricche o socialmente considerate più in alto. Un sistema in cui un corpo tumefatto non merita però la stessa attenzione.

Credits: Netflix

A non tirarsi indietro davanti ai lividi di Hui-su è solo Eun-su, che con la sua proposta dà il La alle vicende vere e proprie. Ben al di là della scelta di quale sia il modo migliore per uccidere un uomo tanto ricco quanto umanamente piccolo senza essere scoperte – la loro scelta è, a dirla tutta, non proprio quella più furba – le puntate successive di Non stare a guardare sono strutturate per farci comprendere quanto l’indifferenza vada a braccetto con un altro grande classico del mondo contemporaneo: la focalizzazione sul proprio tornaconto personale. Pensiamo prima a noi anche quando il nostro bene significa fare del male al prossimo.

Ed è proprio qui che – purtroppo – Non stare a guardare parte un po’ troppo per la tangente.

Scavallata la prima metà della serie, gli episodi di Non stare a guardare non cambiano totalmente focus, ma prendono una piega strana. Una piega che fa passare la serie da ciò che vuole essere – un prodotto di denuncia sociale profonda – a ciò che è: una bussola che fa fatica a trovare il suo Nord. L’idea qui è abbastanza chiara: il problema non è solo Jin-pyo, il marito violento. È anche tutto ciò che gli gira intorno. Contro le due protagoniste c’è un uomo che in 0.2 secondi passa dall’essere un innocuo complice alla più temibile delle minacce. Ci sono la madre e la sorella di Jin-pyo, una volontariamente cieca e ancora autoconvinta di aver tirato su il figlio perfetto, l’altra più marcia del sistema di cui è parte. E, come se non bastasse, ci sono i colleghi di lavoro, la polizia, la società tutta.

Tutto bene se non fosse per il fatto che il quinto, il sesto e il settimo episodio di Non stare a guardare si trasformano in una sorta di partita a guardia e ladri. Tutti sono alla ricerca di tutti, tutti si difendono da tutti. Ma soprattutto, ognuno riesce a stare benissimo dietro le mosse degli altri senza alcuno straccio di prova concreta, basandosi su pure supposizioni che casualmente si confermano sempre grandi verità. La serie perde per quasi metà del racconto il senso di realtà. Un senso di realtà tanto più prezioso in una storia che fa dei problemi concreti di una società reale il proprio nucleo portante.

Una scena di Non stare a guardare
Credits: Netflix

È così che il monito corre il suo rischio più grande: quello di perdersi.

E così un titolo nato per essere un invito più che una descrizione perde di potenza. Ed è un peccato, perché l’idea era quella giusta, e il messaggio anche. Stare a guardare è una cosa che ha fatto Eun-su a suo tempo e che in qualche momento della nostra vita abbiamo fatto anche noi. Ci siamo voltati dall’altra parte quando qualcuno aveva bisogno della nostra attenzione. Siamo rimasti a guardare fissi in un angolo mentre aveva bisogno di una mano tesa. Abbiamo avuto paura, non ci abbiamo creduto abbastanza, abbiamo pensato a noi stessi. Questo non possiamo cambiarlo, ma possiamo cambiare il modo in cui agiremo domani, la direzione verso cui guarderemo, la prontezza che avremo nell’aiutare.