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Ikusagami – Last Samurai Standing non è la nuova Squid Game, ma è una delle migliori Serie Netflix del periodo

Last Samurai Standing

ATTENZIONE: il seguente articolo potrebbe contenere spoiler su Ikusagami – Last Samurai Standing

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C’è un momento, guardando Ikusagami – Last Samurai Standing, in cui lo spettatore capisce esattamente cosa sta guardando. Non è una semplice variante samurai di Squid Game, né un’eredità tardiva del successo di Shōgun. Non è un battle royale travestito da drama storico, né un dramma storico travestito da battle royale. È un’opera che vive in una zona liminale, in un confine dove la storia incontra la violenza coreografata, la contemplazione zen si spezza nel sangue, e il Giappone del XIX secolo si trasforma in un’arena in cui l’identità viene messa a morte un tag alla volta.

Ikusagami – Last Samurai Standing è, prima di tutto, un lamento. Un canto funebre per la scomparsa dei samurai. Non travolti da una disfatta militare ma da una vittoria altrui. Quella della modernità, dei fucili, della centralizzazione. Della logica industriale che sostituisce il codice del bushidō. Ma questo lutto, anziché elaborarlo in silenzio, la serie lo spettacolarizza, lo trasforma in un massacro rituale che sa essere tanto feroce quanto profondamente emotivo.

Dal primo episodio, è chiaro che ci troviamo davanti a uno dei prodotti d’azione tra i più imponenti mai messi in scena da Netflix. Una stagione da sei episodi che sembra costata tre film, girata con una cura maniacale per le coreografie e la fotografia, animata da un protagonista che è al tempo stesso attore, produttore e action director. Ikusagami – Last Samurai Standing non punta alla perfezione assoluta ma a qualcosa di più raro: essere necessaria e coerente con la sua materia. Essere un’opera che sa perché esiste e che non teme di sporcarsi le mani per raccontarlo.

Ikusagami – Last Samurai Standing è il gioco crudele di una nazione allo sbando

La premessa narrativa è tanto semplice quanto spietata: 292 samurai, ormai ridotti a shizoku (nobili senza potere, senza terra, senza futuro) vengono attirati al tempio zen Tenryū-ji di Kyoto. Da lì parte il Kodoku, una competizione che li costringerà a percorrere la via del Tōkaidō verso Tokyo, raccogliendo i “tag” di legno degli avversari. Solo nove potranno arrivare alla capitale; solo uno vincerà una montagna di yen.
È un battle royale? Sì. Ma non è questa la parte interessante.

La serie affonda le radici nella crisi identitaria successiva alla Ribellione di Satsuma del 1877: una classe guerriera che, dopo secoli di dominio culturale, viene improvvisamente dichiarata obsoleta. Ikusagami – Last Samurai Standing non parla solo di uomini che combattono per la vita. Parla soprattutto di uomini costretti a combattere perché nessuno riconosce più il loro valore.

Il gioco non è un’allegoria del capitalismo né una denuncia sociale contemporanea. Semmai è una metafora storica. Una maniera brutale per mettere in scena la fine di un mondo. L’idea che dietro tutto ciò ci sia un gruppo di oligarchi, embrionali rappresentazioni dei futuri zaibatsu, è narrativamente efficace e socialmente disturbante. L’estinzione dei samurai non avviene per decreto ma come spettacolo per ricchi.
E noi spettatori siamo, inevitabilmente, complici.

Shujiro Saga: l’uomo dietro la leggenda

LA battaglia epocale tra il bene e il male in Ikusagami – Last Samurai Standing
Credits: Netflix

Al centro emotivo di Ikusagami – Last Samurai Standing c’è Shujiro Saga, interpretato da un Junichi Okada davvero ispirato. Un tempo era un leggendario spadaccino conosciuto come “l’Uccisore di Uomini”ma ora solo un’ombra. Un padre segnato dalla guerra, consumato dal trauma e dalla paura di perdere ciò che gli rimane della sua famiglia. Quando accetta di entrare nel Kodoku, non lo fa spinto dall’ambizione ma perché non ha alternative. Sua moglie e suo figlio stanno morendo di colera, e quell’assurda competizione è l’unica possibilità di salvarli.

La serie non cerca mai di trasformarlo in un eroe tradizionale. Shujiro è un sopravvissuto, un uomo che procede a fatica, silenzioso e trattenuto, spesso incapace perfino di nascondere il peso di ciò che ha vissuto. La sua grandezza non sta nei discorsi o nel carisma ma nei gesti. Nel modo in cui combatte, in cui difende chi gli sta accanto, in cui lotta, e talvolta fallisce. Nel non farsi trascinare indietro dal proprio passato.

Ikusagami – Last Samurai Standing ha comprimari che avrebbero meritato di più

Accanto a lui si muove un gruppo di personaggi che, pur non sempre esplorati in profondità, colpiscono per presenza scenica o per funzione narrativa. C’è Futaba (Yumia Fujisaki), la giovane ingenua e caparbia che diventa quasi la coscienza morale del gruppo. Poi c’è Iroha (Kaya Kiyohara), guerriera straordinaria e dal dolore trattenuto, capace di catalizzare l’attenzione ogni volta che entra in scena. Ci sono Kyojin (Masahiro Higashide), stratega ambiguo e ironico, forse il personaggio più misterioso e promettente e Bukotsu (Hideaki Itô), pura violenza allo stato bruto, un antagonista che sembra uscito da un videogioco per quanto è iconico. E, infine, c’è Gentosai Okabe, il leggendario “demone dai capelli bianchi”, la cui presenza scenica ricorda un presagio di morte vivente.

Il loro intreccio funziona, anche se la natura stessa della competizione impedisce alla serie di dare a tutti lo spazio che meriterebbero. Alcuni flashback si affacciano giusto il tempo di suggerire un passato interessante, altri personaggi vengono eliminati prima che possano lasciare un vero segno. Ma quelli che restano, restano davvero.

Regia e ritmo: tra meditazione e massacro

Uno degli aspetti più affascinanti di Ikusagami – Last Samurai Standing è il modo in cui sceglie di gestire il ritmo. La regia di Michihito Fujii e Kento Yamaguchi si muove costantemente tra registri molto diversi, quasi opposti, ma sorprendentemente complementari. Da una parte c’è il caos coreografato fatto di battaglie imponenti e piani sequenza che non concedono respiro. Dall’altra, la serie sa fermarsi e respirare, immergendosi in silenzi zen e primi piani carichi di significato.

A queste due anime si aggiunge una costruzione narrativa che procede per stratificazione. Rivelazioni centellinate, alleanze che si sgretolano lentamente, un tessuto di mitologia interna che si amplia episodio dopo episodio. Questo equilibrio, però, non è sempre perfetto. La parte centrale della stagione perde un po’ di slancio, soprattutto quando la storia si sposta sugli oligarchi che osservano il Kodoku dall’alto del loro privilegio. Non sono sequenze inutili ma spezzano leggermente la tensione accumulata fino a quel momento.

Tutto cambia, però, nel finale. L’ultimo episodio è un’esplosione di cinema puro. Azione quasi ininterrotta, duelli che si rincorrono senza pause, agguati che emergono dal buio, fino a un confronto conclusivo durante un festival pirotecnico che è probabilmente la scena più suggestiva della serie. Un momento dove estetica, coreografia e dramma convergono in maniera quasi ipnotica. È la più chiara dichiarazione d’intenti dell’opera: Ikusagami – Last Samurai Standing vuole essere ricordata per la potenza fisica delle sue immagini, per il corpo più che per la parola, per il colpo di spada più che per il dialogo. E in questo, riesce perfettamente.

Fotografia, scenografia e costumi: un Giappone che sanguina storia

Immerso nella nebbia delle esplosioni il protagonista sembra cercare qualcosa
Credits: Netflix

Visivamente, la serie è una delle migliori produzioni giapponesi degli ultimi anni. La fotografia usa toni autunnali, luci naturali, ombre profonde e contrasti che sembrano dipinti. Le foreste di bambù, i templi, i villaggi, le strade fangose, i ponti sul Tōkaidō: ogni location è scelta non per bellezza, ma per funzione narrativa.

Il Giappone di fine Ottocento non viene idealizzato né addolcito: è un Paese stanco, grigio, ferito. Le scenografie integrano elementi tradizionali con i primi segnali della modernità: orologi occidentali, uniformi, armi da fuoco, architetture ibride. E tutto dialoga con i personaggi: gli abiti logori di Shujiro, la giacca da artista itinerante di Iroha, la veste candida e minacciosa di Okabe.
È una ricostruzione storica non solo accurata ma emotiva. Non è ambientazione: è contesto, è memoria culturale che prende forma.

Se la scenografia costruisce il mondo, i costumi ne disegnano l’anima. Per Ikusagami – Last Samurai Standing sono stati realizzati oltre 300 pezzi su misura. Non decorazioni ma testimonianze di identità. L’abito rosso e grigio di Futaba, con i suoi motivi floreali delicati, contrasta con la sua fragilità e la sua determinazione; il blu profondo di Shujiro, logoro e pesante, riflette il suo peso interiore; la tuta nera di Okabe, quasi monacale, lo isola dal resto del mondo, come un presagio vivente. E poi c’è Iroha, con la sua giubba da fiera itinerante: non è un costume da guerriera ma da sopravvissuta.

Questi abiti non sono stati cuciti per brillare sotto i riflettori. Sono stati forgiati per raccontare. Ogni piega, ogni macchia, ogni dettaglio ricamato è un segno della storia che quel personaggio porta addosso. La serie non ha bisogno di dialoghi per farci capire chi è chi: basta guardare cosa indossano.

L’azione: quando la spada diventa linguaggio

L’aspetto in cui Ikusagami – Last Samurai Standing dà il meglio di sé è l’azione. Nessuna scena costruita solo per riempire minutaggio. Ogni combattimento è girato con un’attenzione quasi maniacale alla fisicità, alla pesantezza dei colpi, al sudore che si mescola al sangue. Tutto è reale, tangibile, spesso dolorosamente autentico.

Gran parte del merito va a Junichi Okada, che non solo interpreta Shujiro Saga ma dirige l’intero comparto action. Il suo approccio è chiaro: il combattimento non è spettacolo gratuito ma linguaggio. Le spade non si limitano a tagliare ma comunicano. Ogni affondo racconta un pensiero, ogni parata trattiene un’emozione. Non ci sono coreografie fini a sé stesse, solo personaggi che parlano con la lama.

La serie è piena di momenti che potrebbero essere presi e proiettati al cinema senza perdere un grammo di potenza. L’apertura, con la battaglia iniziale girata in un lungo piano sequenza, è un vortice di caos e brutalità che ricorda lo sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan. La macchina da presa si muove come un occhio intrappolato nel pandemonio, incapace di distogliere lo sguardo mentre il mondo intorno crolla.

E non è un caso isolato. C’è la gigantesca mischia al tempio di Kyoto, esempio di caos coreografato che difficilmente trova eguali in televisione. E c’è perfino un feroce corpo a corpo all’interno del caveau di una banca, una scena asfissiante in cui lo spazio ristretto costringe i personaggi a inventare movimenti nuovi, quasi animaleschi, pur di sopravvivere.

A rendere tutto credibile è l’assenza di trucchi visivi ostentati. Nessuno slow motion “cool”, poca CGI percepibile, niente scorciatoie. L’intero cast si muove con una padronanza che raramente si vede in un prodotto televisivo. Ikusagami – Last Samurai Standing ha una narrazione che mette l’azione al centro non per stupire ma per rivelare. E ci riesce magnificamente.

Temi e sottotesti: onore, estinzione, sopravvivenza

Qualche momento prima dell'inizio del Kodoku, su Ikusagami – Last Samurai Standing
Credits: Netflix

Ikusagami – Last Samurai Standing non pretende mai di essere un trattato socio-politico ma allo stesso tempo rifiuta di ridursi a un semplice spettacolo di sangue. I suoi temi non vengono declamati ma emergono nei dettagli, nelle scelte silenziose dei personaggi o nel tremito di una mano che non vuole più brandire una spada.

Il primo nodo tematico è l’obsolescenza dell’onore. La serie si interroga continuamente su cosa accada quando un codice morale, rimasto intatto per secoli, viene improvvisamente dichiarato inutile. I samurai non sono più guerrieri ma residui ingombranti di un’epoca che nessuno ha intenzione di salvare. In un mondo che li rifiuta, il bushidō si sgretola e resta solo l’istinto, la sopravvivenza nuda e cruda, senza romanticismi e senza illusioni.
A questo si lega l’identità ferita di ogni combattente. Ognuno dei partecipanti al Kodoku è un uomo rimosso dalla Storia, costretto a reinventarsi o a soccombere. La Restaurazione Meiji, per la serie, non è un semplice passaggio epocale ma è una vera e propria amputazione culturale.

Eppure, in mezzo a questa brutalità sistemica, Ikusagami – Last Samurai Standing trova spazio anche per un’umanità residuale, fragile e sorprendente. Piccoli gesti di pietà. Spiragli che ricordano come anche dentro un gioco di morte ci sia ancora margine per la scelta morale. È una luce minima ma necessaria, che impedisce alla serie di trasformarsi in un cinico festival di violenza.

È importante sottolineare che la serie non vuole imitare Squid Game né inserirsi nel suo discorso. Ikusagami – Last Samurai Standing racconta tutt’altro. La fine di un’identità collettiva e la disperazione di chi scopre che il mondo è andato avanti senza di lui. È un’altra ferita, un’altra epoca, un altro modo di guardare alla sopravvivenza.

Un’opera imperfetta ma che va guardata

Ikusagami – Last Samurai Standing non è un capolavoro cristallino. Ha difetti di ritmo, personaggi secondari sacrificati troppo presto, e il tremendo difetto di non esser stata ancora rinnovata. Ma è una serie potente, coraggiosa, viscerale.
È un’opera che osa prendere un genere iper-codificato come il battle royale e lo reinserisce in un contesto storico credibile, trasformando la violenza in linguaggio e il dolore in memoria. È una serie che sente il peso della propria tradizione e non scappa, non si vergogna di essere brutale, non ha paura di essere emotiva.

Ikusagami – Last Samurai Standing è un ottimo prodotto, con pochi difetti e tanti pregi. Sicuramente tra i migliori d’azione dell’anno e certamente uno dei più originali sotto il profilo tematico. È una serie che si sente sulla pelle, che scava nelle ossa, che lascia addosso l’odore del sangue e delle foglie d’autunno. La cui bellezza si apprezza dopo anziché durante.
Non racconta l’ultimo samurai. Racconta l’ultimo respiro di un mondo. E il prezzo, altissimo, della sopravvivenza.