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Dimmi il tuo nome – La Recensione dell’horror sull’eredità del male

Copertina di Dimmi il tuo nome

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C’è un tipo di paura che non ha bisogno di urla. Non arriva con i mostri, non vive nelle ombre. È quella che si nasconde nelle parole non dette, nei silenzi condivisi, nei confini invisibili che separano un “noi” da un “loro”. Dimmi il tuo nome, la nuova miniserie di Prime Video uscita il 31 ottobre 2025, costruisce il suo orrore proprio lì: in quello spazio grigio dove la coscienza diventa superstizione, e la colpa si traveste da fede.

La serie, creata da Alejandro Hernández, Hugo Stuven e César de Nicolás, e diretta dallo stesso Stuven, racconta una Spagna di fine anni ’90, rurale, chiusa, ancora segnata da ferite storiche mai cicatrizzate. In un villaggio sperduto chiamato Río Blanco, l’arrivo di un gruppo di braccianti per la raccolta stagionale risveglia tensioni sopite e rancori collettivi.

Una scena di Dimmi il tuo nome (Tv Sorrisi e Canzoni)

All’inizio sembra una storia di pregiudizi

Tuttavia, la trama lentamente si trasforma in un racconto di fantasmi, di entità che non appartengono solo al mondo dei morti, ma a quello dei vivi. Non è un caso che la serie si apra con l’invocazione sussurrata: “Dimmi il tuo nome.” In quel gesto di nominare qualcuno c’è il senso profondo di tutto. Dare un nome significa riconoscere l’altro, ma anche possederlo, renderlo parte del proprio linguaggio. È un’azione di potere e identità, che qui diventa metafora del conflitto stesso.

Il male che serpeggia a Río Blanco non è un demone, non è un’entità esterna: è la paura collettiva di guardare in faccia la diversità e di darle un nome umano. Hugo Stuven, regista già apprezzato per il dramma Solo, dirige con mano ferma e sensibilità estetica un racconto che mescola l’horror psicologico con il realismo magico. La sua Spagna non è quella da cartolina, ma una terra ferita, arida, dove la fede è diventata un rifugio e la colpa una religione.

Per cos’altro si distingue Dimmi il tuo nome?

La fotografia, dai toni ocra e seppia, trasforma i campi e le case del paese in paesaggi interiori. Il suono, o meglio, la sua assenza, diventa una presenza costante. Non ci sono tanti jump scare (ecco i film horror che usano i jump scare), ma un senso di inquietudine che cresce, come un’infezione che si diffonde piano. La scrittura sceglie la coralità: ogni episodio racconta la storia da un punto di vista diverso. C’è Sonia, la maestra che crede ancora nella possibilità di redenzione; Ernesto, il contadino disilluso e rancoroso; Safir, l’imam che rappresenta la dignità di chi è sempre “ospite” e mai davvero accolto. E poi c’è la comunità stessa, personaggio collettivo, fatta di sguardi, di confessioni, di piccoli gesti che rivelano l’ipocrisia del vivere insieme.

La scelta di alternare prospettive rende la narrazione più intima, ma anche più frammentata. Pertanto, bisogna avere pazienza, lasciarsi portare. Ogni storia di è un tassello di un mosaico più grande e quest’ultimo, alla fine, non mostra un volto mostruoso, ma uno specchio. A livello di tono, Dimmi il tuo nome appartiene a quella tradizione dell’horror europeo che preferisce insinuarsi invece di esplodere. È vicina a The Witch, a Hereditary, a Il nido di Roberto De Feo. Ma soprattutto dialoga con 30 Coins di Álex de la Iglesia, con cui condivide la radice cattolica del terrore, pur scegliendo un registro più intimo e meno spettacolare. Laddove 30 Coins porta l’apocalisse nel paese, Dimmi il tuo nome porta il paese dentro l’apocalisse: quella morale, quotidiana, che si consuma nella paura del diverso e nella colpa tramandata.

Michelle Jenner (Film TV)

Le interpretazioni sono il cuore pulsante

Michelle Jenner, finalmente lontana dai ruoli più convenzionali, costruisce una protagonista fragile ma dignitosa, il cui sguardo basta a raccontare la stanchezza di chi vuole credere ancora nel bene. Raúl Arévalo restituisce la rabbia trattenuta di un uomo che ha perso la fede non in Dio, ma nelle persone. Younes Bouab offre invece la performance più silenziosa e potente: il suo Safir è uno specchio morale che costringe gli altri, e noi spettatori, a fare i conti con la propria paura.

Anche Darío Grandinetti, in un ruolo secondario ma magnetico, incarna quel lato oscuro della provincia che vive di colpa e sospetto. Il ritmo non è sempre perfetto. A volte la lentezza pesa, altre volte l’allegoria rischia di diventare troppo esplicita. Ma proprio nella sua imperfezione il prodotto trova sincerità. Certamente, non cerca di piacere a tutti, non semplifica, non addolcisce. È un racconto che vuole mettere a disagio (ecco le scene che ci mettono a disagio), non solo spaventare.

Il finale di Dimmi il tuo nome è impattante

Quando, in conclusione, le due comunità, quella locale e quella migrante, si trovano a condividere lo stesso dolore, capiamo che Dimmi il tuo nome non parla davvero di fantasmi, ma di memoria. Di ciò che scegliamo di dimenticare e di ciò che ritorna per essere riconosciuto. Tuttavia, va detto che alla sua uscita il pubblico si è spaccato. C’è chi la definisce “un horror poetico e politico”, e chi la accusa di essere “troppo lenta e cerebrale”. Ma questo è il destino delle opere che provano a dire qualcosa di diverso. Non tutti vogliono sentirsi raccontare la paura in modo così umano.

A tal proposito, riesce a usare il linguaggio del terrore (qui le serie puramente horror) per parlare di accoglienza, di colpa, di comunità. Pertanto, è un racconto che sussurra e che resta addosso, come un sogno inquieto da cui non vuoi svegliarti troppo in fretta. In definitiva, se dovessimo riassumerla in una frase, potremmo dire che Dimmi il tuo nome non cerca il brivido, ma la rivelazione. Non vuole portarti a chiudere gli occhi, ma farti guardare più a fondo. E forse, nel panorama horror europeo, non c’è niente di più coraggioso di questo.