ATTENZIONE! La recensione contiene SPOILERS della terza stagione.
Dimenticate per un momento Squid Game, perché è il momento di dare il meritato spazio e attenzione a Alice in Borderland. Ed è qui che casca il proverbiale asino, contrariamente alla sorellastra coreana, Alice in Borderland non si è mai persa strada facendo. Basti pensare che lo show giapponese ha anticipato Squid Game di un anno, compreso di stile, toni e tematiche. Il gioco è sempre lo strumento ultimo che decide chi vive e chi muore, deformato e corrotto, ha smesso di rappresentare l’innocenza. Eppure, ciò che cambia tra le due produzioni è il fine. A cosa serve il gioco?
Se in Squid Game la sua funzione è quella di smascherare la corruzione dell’animo umano, mostrando le diseguaglianze sociali e l’egoismo, nel caso di Alice in Borderland il discorso si fa addirittura teologico.
Dopo tre anni di attesa ci sembra giusto fare un passo indietro, per riprende le fila del discorso e tornare più consapevoli nella tana del Bianconiglio (la terza stagione è disponibile sul catalogo Netflix). Arisu, Chōta, Karube sono tre migliori amici, hikikomori giovanissimi con il mondo davanti, ma senza gli strumenti giusti per comprenderlo. Un giorno qualunque si trovano a Shibuya e la loro vita cambia per sempre.