Ogni giorno proviamo a raccontare le serie TV con la stessa cura e passione che ci hanno fatto nascere.
Se sei qui, probabilmente condividi la stessa passione anche tu.
E se quello che facciamo è diventato parte delle tue giornate, allora Discover è un modo per farci sentire il tuo supporto.
Con il tuo abbonamento ci aiuti a rimanere indipendenti, liberi di scegliere cosa raccontare e come farlo.
In cambio ricevi consigli personalizzati e contenuti che trovi solo qui, tutto senza pubblicità e su una sola pagina.
Grazie: il tuo supporto fa davvero la differenza.
➡️ Scopri Hall of Series Discover
Il mio algoritmo di Netflix mi conosce davvero bene. Se dovessi fare una classifica di chi mi conosce meglio al mondo metterei al primo posto Fede, la mia migliore amica, al secondo mia madre e mia sorella a pari merito e al terzo senza dubbio l’algoritmo di Netflix, che mi dà ciò che sto cercando anche quando non so cosa sto cercando. Anzi, soprattutto quando non lo so. Tra le categorie che mi consiglia attualmente ci sono cose come Commedie TV internazionali sulla genitorialità (perché mi piace indagare il rapporto genitori-figli, non per altro), Serie TV europee con protagoniste femminili e Serie TV europee argute. Ecco: in tutte e tre è spuntata dal nulla la serie che mi sta facendo compagnia attualmente: Pernille.
Spuntata a maggio nel catalogo Netflix, Pernille è una serie tv norvegese cominciata nel 2021 e durata fino al 2024. Una serie che, con mio estremo disappunto, non avevo mai sentito nominare prima di cominciare a guardarla. È composta da cinque stagioni di sei episodi ognuna, tutti di una durata media che si aggira intorno ai 30 minuti. Veloce, ironica, fruibile con la leggerezza necessaria a chi si mette davanti alla tv per svagarsi ma anche con la profondità di chi comunque dalla visione vuole trarre qualcosa. E se ne traggono di insegnamenti, guardando Pernille.
Nella vita di una donna contemporanea.
Ideata e sceneggiata dall’attrice, comica e sceneggiatrice Henriette Steenstrump, che ne è anche l’assoluta protagonista, Pernille è la storia di vita di una donna che potrebbe essere nostra madre, nostra zia, la nostra vicina di casa o quella che incontriamo tutte le settimane al supermercato. La vita di una donna contemporanea, reale. È Pernille: madre single sulla quarantina, con una figlia pre-adolescente e un’altra giovane adulta ancora indecisa sul da farsi nella vita. Nelle sue giornate una più caotica dell’altra si barcamena tra le necessità delle figlie, quelle del figlio di sua sorella recentemente morta in un incidente e quelle di un padre che a settant’anni ha appena fatto coming out. Ah, quasi dimenticavo, anche quelle di un ex che vede le sue responsabilità di padre solo col binocolo.

Il tutto, come se non fosse abbastanza, insieme a un lavoro parecchio impegnativo ai servizi di protezione all’infanzia. Una scelta narrativa, questa, che permette di affiancare la storia di una famiglia caotica ma a suo modo sana con quelle di contesti molto più complessi legati a dipendenze, violenza e alle più svariate cause di disagio familiare e personale. Pernille affronta tutto questo con il sorriso e con la disponibilità di chi – al di là dello stress e della fatica – si fa sempre in quattro per gli altri. Ma anche chi sembra così infrangibile ha le sue fragilità. Lei non è da meno: si tiene tutto dentro, fa fatica a scavare nelle situazioni dolorose. E si confida solo con sua sorella che ormai non c’è più, lasciandole messaggi in una segreteria che non ascolterà mai.
Insomma: Pernille è reale, profonda, vera. Ma allora, come è possibile che non se ne sente mai parlare?
Alcune serie tv nascono con la camicia: Pernille non è una di queste.
Ci sono serie tv dal successo assicurato ancora prima che arrivi il momento della distribuzione. O per lo meno si sa che la gente le guarderà, se poi arrivi anche ad apprezzarle è un altro discorso. Il fattore numero uno è sicuramente la nazionalità: le serie tv statunitensi e quelle britanniche hanno una probabilità di arrivare a un pubblico internazionale ampio molto più alta rispetto alle serie latine, nordeuropee, e chiaramente anche italiane. Lingua, produzione e distribuzione sono chiaramente fattori con i quali non possiamo prendercela, e va bene così.
Altro elemento che può permettere a una serie di nascere con la camicia è la mente che c’è dietro. I nomi dei grandi creatori possono addirittura precedere quelli delle loro ultime serie, che diventano una sorta di Figlie di. E un ragionamento simile vale anche per gli attori e le attrici che nella serie recitano, perché la curiosità dello spettatore passa anche attraverso la scelta dei personaggi. Ecco, nessuno di questi fattori ha aiutato la diffusione di Pernille, almeno non in contesti diversi da quello norvegese, dove la sua protagonista e creatrice è abbastanza conosciuta.

Ma c’è qualcos’altro che rende questa serie norvegese una serie di nicchia: Pernille è scorretta.
Lo è la trama, lo sono i personaggi, lo è il modo in cui sono scritti i dialoghi. È una serie arguta, di quelle in cui i personaggi hanno sempre la risposta pronta, anche e soprattutto quando è quella sbagliata. Alcuni dialoghi mi fanno in tutta onestà saltare i nervi. Il padre di Pernille si relaziona alla figlia più come un adolescente che come un uomo anziano. Che poi, a volte, tra le due età non c’è poi così tanta differenza, entrambe così focalizzate sulla propria vita più che su quelle degli altri. Con le figlie c’è un rapporto molto diretto, senza peli sulla lingua: si può dire tutto e si può fare (quasi) tutto. Ma non pensate a Una mamma per amica: qui è tutto meno idilliaco e più reale.
I battibecchi sono continui, i litigi anche. Le persone si comportano male, esagerano, sbagliano. Hanna e Sigrid, le figlie di Pernille, danno alla madre della str***a di continuo e la madre sembra non considerarlo un problema. Finn, il suo ex, è un padre assente e superficiale, nonché a dirla tutta anche un uomo di m***a (scusate le due parolacce in un unico paragrafo). La zia utilizza la parola Invertito per parlare di un uomo omosessuale. Niente è come dovrebbe essere; tutto è come è davvero. Perché gli universi paralleli alla Stars Hollow hanno sicuramente il loro fascino, se vissuti con il filtro del piccolo schermo. Ma oggi, nel 2025, abbiamo anche (e soprattutto) bisogno di mostrare il mondo in tutta la sua irruenza.
Tra una stagione e l’altra temi importanti vengono toccati con ironia e dolore, semplicità e profondità.
Si parla di lutto e della difficoltà di affrontare la perdita delle persone che amiamo, sia questa improvvisa o in qualche modo già preannunciata. Si parla di genitorialità in tutte le salse, di responsabilità nei confronti di chi è più piccolo o più debole. Ma si parla anche di bullismo e di accettazione dell’altro, di relazioni e della difficoltà – ma anche della paura – di viverle in età adulta, quando ognuno di noi già porta con sé un bagaglio pesante che non sempre si ha voglia di condividere, e che gli altri non sempre hanno voglia di portare insieme a noi.

Pernille ne parla come fanno altri grandi nomi della serialità europea. In particolare, in più di un’occasione Henriette Steenstrump mi ha dato le vibes di Phoebe Waller-Bridge in Fleabag. Per quanto le due serie non abbiano molto in comune a livello di focus tematici e costruzione dei personaggi, alcuni punti in comune ci sono eccome. Uno tra tutti? La capacità di tenere la tragicità della vita sempre sullo sfondo, senza (quasi) mai renderla il perno di ciò che accade. La morte della sorella di Pernille è sempre lì, aleggia in ognuno dei personaggi e tra l’uno e l’altro nelle loro relazioni, in modo non troppo diverso dalla morte della migliore amica e della madre di Fleabag. Ma la serie non è concentrata su questo.
La vita dei personaggi – e la trama della serie – non è ciò che succede in conseguenza della morte: è ciò che succede nonostante.
Sono i legami che continuano e quelli che si rafforzano, sono gli amori che nascono e quelli che finiscono. La vità è piangere la mancanza di chi non c’è più e dopo un minuto ridere di gusto al pensiero di ciò che quella persona avrebbe fatto o ci avrebbe detto in quella circostanza. È andare avanti senza dimenticare, lasciando che il dolore continui come una musica in background: a volte la ascoltiamo, riuscendone a cogliere parole e note; altre volte semplicemente ci accompagna senza che quasi ce ne rendiamo conto.
Insomma, se siete fan dello stile alla Phoebe Waller-Bridge, io vi consiglio vivamente Pernille. E se non lo siete, vi consiglio di darle una possibilità comunque. Oggi prendetemi un po’ come il vostro algoritmo di Netflix: la consigliera seriale di cui non sapete di avere bisogno.

