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Charlie Hunnam e la disturbante, inquietante e umana interpretazione di Ed Gein nel terzo capitolo di Monster

Ed Gein nella straordinaria interpretazione di Charlie Hunnam

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla terza stagione di Monster, straordinamente interpretata da Charlie Hunnam.

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Charlie Hunnam non interpreta Ed Gein. Lo scava da dentro. Lo scolla dalla cronaca per riconsegnarcelo non come simbolo del male, ma come carne decomposta di una follia che odora di quotidianità. Per chi si aspettava il solito “serial killer show”, Monster: The Ed Gein Story è qualcosa di diverso. È uno schiaffo che arriva piano, senza colonna sonora, con la camera che si ferma troppo a lungo dove dovrebbe girarsi. Hunnam, con il suo volto tirato, lo sguardo basso e i movimenti vuoti, non interpreta l’orrore: lo trasuda.

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Per immergersi in un personaggio simile, non basta prepararsi: bisogna andare oltre. Hunnam ha eliminato qualsiasi forma di glamour. Ha spento ogni luce riflessa sul nome di Gein. Ha perso peso, scolpito il corpo per renderlo fragile. La sua rivisitazione è quella di un uomo spento, trasparente, che attraversa le stanze come se non le vedesse, che parla come se non avesse più nulla da dire. Non ha un’intenzione, ha un’assenza. Non mostra rabbia, ma disperazione. Il male, qui, è un sottoprodotto della solitudine e della schizofrenia.

La regia asseconda questo lavoro con una messa in scena spogliata, lenta, quasi teatrale. Gli ambienti non sono finti, ma più veri del vero. Ogni dettaglio – dalla carta da parati stinta al pavimento consumato – accompagna l’involuzione del protagonista. Hunnam non recita sopra queste cose: ci sprofonda dentro. Diventa parte dell’arredo mentale. Non c’è un momento in cui sembri “fuori parte”. È lì, incastrato, avvolto da una pelle che non è la sua eppure non può più togliersi.

Charlie Hunnam ed Ed Gein: il corpo come una confessione silenziosa e profonda

Il centro della performance di Hunnam non è la parola, ma il corpo. Non la frase, ma la posizione in cui la dice. Non ciò che fa, ma come lo fa. Ogni scena in cui compare nudo, o parzialmente nudo, è una dichiarazione d’intenti: non c’è erotismo, né provocazione. C’è vergogna, pudore, disagio. Il corpo di Ed Gein non è un tempio da profanare: è una gabbia che non può essere lasciata. La sua schiena curva, le spalle chiuse, le mani tremanti: ogni dettaglio parla. Non c’è nulla di didascalico, tutto è visivamente palpabile.

Quando si muove, Hunnam sembra sempre in ritardo rispetto a se stesso, come se il cervello avesse deciso qualcosa che il corpo esegue malvolentieri. Questa disconnessione è uno degli elementi più inquietanti della sua recitazione: Ed non è presente a se stesso. Il modo in cui entra in una stanza, il modo in cui guarda gli oggetti, le persone, gli animali impagliati: tutto è filtrato da una lente opaca. Non vede, ricorda. Non tocca, rivive. Né si difende o parla.

E poi ci sono i momenti in cui indossa la pelle altrui. La recitazione cambia: Charlie Hunnam si tende, il respiro si spezza, gli occhi si dilatano. È una trasformazione, ma non teatrale. È intima. Gein non gioca a fare il mostro: cerca una madre. Cerca un’identità che non ha mai avuto. Quando indossa una “maschera” fatta di pelle, non lo fa per spaventare, ma per appartenere a un qualcosa di incompreso. Hunnam non lo sottolinea. Lo lascia accadere. Lo lascia entrare sotto la pelle dello spettatore. Lasciando a lui l’arduo compito della comprensione dietro quei comportamenti.

La madre

Charlie Hunnam nei panni di Ed Gein
Credits: Netflix

Il fulcro emotivo e simbolico della serie è il rapporto tra Ed e Augusta Gein. Non c’è bisogno di esibizioni drammatiche, né di spiegazioni psicologiche urlate: Hunnam costruisce il dolore con silenzi. Ogni volta che pronuncia “mamma”, lo fa come se stesse pregando. C’è timore, devozione, rabbia, desiderio. È una parola che contiene tutto. La madre non è una figura secondaria: è il Dio privato di Ed, la sua unica legge morale, l’unico corpo che abbia mai desiderato senza poterlo possedere. È anche la prima assenza. La perdita che lo annienta.

In questi passaggi, Charlie Hunnam si muove come un uomo in lutto cronico. Non piange. Non urla. Ma ogni gesto è quello di chi cerca di riportare in vita qualcosa che è morto da tempo. Quando parla da solo, quando cucina, quando sistema la casa: tutto è rituale. La recitazione non cerca realismo, cerca ripetizione. Come in un rito funebre che non finisce mai. È qui che il personaggio si fa archetipo. Non è solo Ed Gein: è l’orfano eterno, il bambino abbandonato, il figlio mai svezzato. È un concetto, non più un uomo.

Hunnam evita ogni compiacimento. Non c’è una scena che cerchi di “giustificare” Gein, né di renderlo empatico. Ma il dolore che attraversa la sua interpretazione è autentico. Quando si inginocchia nel fango o si rannicchia sul pavimento, non sembra recitare: sembra chiedere perdono a un dio che non c’è. È una performance che non cerca la redenzione. Cerca solo un senso, o almeno un perché. E trova solo il silenzio, il dolore e l’assenza.

La psicosi come atmosfera

La scelta registica di rappresentare la follia non con effetti speciali, ma con lentezza e claustrofobia visiva, è amplificata dal lavoro di Hunnam. La camera lo segue da vicino, lo isola, lo incastra in corridoi troppo stretti, in stanze troppo buie. Ma è lui a costruire davvero il senso di prigionia. Non alza mai la voce. Non scatta mai. Ogni sua azione è rallentata, come se il tempo avesse smesso di scorrere per lui. Anche gli sguardi sono sempre indiretti. Non guarda negli occhi. Guarda attraverso.

Questa scelta fa sì che lo spettatore non riesca mai a rilassarsi. Non sa cosa aspettarsi, perché Gein non segue una logica comprensibile. Non si basa su schemi precisi e non ha regole. Hunnam rende visibile questo vuoto logico. È come se ogni scena fosse una ripetizione deformata di quella precedente. L’Ed che interpreta è privo di narrazione interna. Vive a episodi, a flash, a impulsi.

La forza della sua performance sta proprio qui: non dà certezze. Non cerca un climax né costruisce un “arco”. È tutto già spezzato. Ogni scena è l’eco di un trauma non elaborato. Hunnam recita con il corpo rotto, ma lo fa con una lucidità chirurgica. Non c’è mai improvvisazione. Tutto è calcolato al millimetro. Ma il calcolo è invisibile. Si vede solo il crollo. Ed è questo che terrorizza.

Una performance da manuale per Charlie Hunnam

Monster: The Ed Gein Story
Credits: Netflix

In certe inquadrature, la macchina da presa non mostra tutto: resta nel buio, nel margine, e Hunnam deve completare con lo sguardo, col corpo. È un atto di fiducia tra attore e regia. Ciò rende tante sequenze con poco “movimento” le più cariche di senso. Hunnam ha scelto di “essere poco” e non di “fare troppo”. È una scelta tecnica che richiede controllo totale: se sbagli l’attimo, perdi tutto.

Non ha effetti, urla, esplosioni: ha controllo. E in un ruolo come Gein, il controllo è paradossalmente la scusa per l’orrore che si instaura lì, dove non aspetti che arrivi. È l’anticipazione, è ciò che non vedi ma senti. La performance tecnica di Hunnam si regge su quel confine: tra visibile e invisibile, tra gesto e omissione.

Incontro con il buio: come Hunnam è diventato Gein

Entrare in contatto con Ed Gein significa attraversare molte soglie interiori. Hunnam ha detto di essere caduto in un “panico totale” all’inizio della preparazione — non un effetto narcisistico, ma la reazione naturale di chi sente di spacchettare una zona dell’anima che non sapeva di possedere. Quella fragilità iniziale, però, è diventata carburante per la performance: è il frammento di dubbio che rende tutto più credibile.

Immaginiamo che Hunnam abbia creato una mappa dettagliata del personaggio: non solo date e fatti, ma “momenti interiori” immaginati. Cosa pensava quando era solo, che visioni torturavano la notte, che desideri sopiti lo muovevano.

Ha dovuto anche confrontarsi con l’orrore reale dietro una macabra leggenda. Non è facile lavorare con un personaggio noto per atti atrocissimi: il rischio è la spettacolarizzazione o la banalizzazione. Hunnam ha sempre detto di voler esplorare Ed “al centro” della sua malattia. Questo approccio richiede che ogni scena “privata” — non quelle con al centro gli orrori compiuti — abbia lo stesso peso di quella che scandalizza. Le scene quotidiane, le silenziose, i gesti umani: sono quelli che sostengono e alimentano il delirio progressivo di uno dei serial killer più pericolosi della storia umana.

Charlie Hunnam e il demone sotto la pelle: Ed Gein

Ha scelto di non farsi “spettacolo del male”. Invece di lasciarsi trascinare dalla violenza come motivo estetico, ha cercato di limare, di togliere. Il male che resta è quello che non senti arrivare, quello che s’insinua. Nel rapporto con la madre Augusta, Hunnam ha scavato un inferno psicologico senza urlarlo, usando il rispetto materno come specchio deformante. Non è solo la madre che struttura Ed, è la distanza, l’amore mancato, la lotta col ricordo.

Infine, Charlie Hunnam ha dovuto affrontare due rischi concreti, inevitabili in casi del genere: identificarsi troppo e distanziarsi troppo. Se ti identifichi troppo, perdi il crinale del giudizio. Se ti distanzi troppo, diventi assente. L’equilibrio richiesto è micidiale. La performance rende evidente quel filo sottile: In quei momenti, Hunnam supera se stesso: ci riconsegna il personaggio in una maniera che non conosciamo.

Monster - The Ed Gein Story
Credits: Netflix

Interpretare Ed Gein significa anche confrontarsi con una storia andata oltre la sua vita.

Non è solo un assassino, è l’origine di un immaginario. Da lui derivano Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill. Hunnam lo sa, e gioca contro questa mitologia: non fa l’icona. Non fa l’antieroe. Fa un relitto. Fa una presenza che nessuno vuole ricordare.

In un’epoca in cui il true crime rischia talvolta di sconfinare nell’intrattenimento, la sua performance è un atto di resistenza. Non c’è spettacolo: c’è disagio, angoscia, rifiuto. La serie non è piacevole da guardare. Ma è proprio questo che la rende necessaria. E Hunnam è il veicolo perfetto di questa scelta. Non cerca il successo. Cerca la verità. E la verità, qui, è marcia.

La sua interpretazione non resterà negli annali per le urla, per i monologhi, per i premi. Resterà perché fa male. Non se ne va né lascia una lezione, bensì una ferita. È questo che dovrebbe fare l’arte quando si confronta con il male: non giustificarlo, non raccontarlo. Ma renderlo visibile. E poi lasciarlo lì, perché ne senta il peso. Charlie Hunnam questo peso ce lo fa sentire tutto. E ci porta a confrontarci con esso.

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