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Ryan Murphy è troppo scomodo per parlare di Halston?

Per fare il regista, devi credere in te come nessuno farebbe mai. Devi essere illuminante, forte. Devi avere il controllo della situazione, senza però cedere alla razionalità perenne. Devi sbagliare, marchiare il prodotto con la tua firma, rendendolo ovviamente tuo. Devi riuscire a farti riconoscere, a rendere leggibile il tuo nome anche senza l’ausilio dei titoli di coda e di testa. La maggior parte dei nostri registi preferiti riesce in questo. Li sappiamo identificare, e sono riusciti a mostrarsi a noi con tutto quello che li caratterizza. Conoscere bene un regista significa anche comprendere tutte le volte in cui si mette alla prova, uscendo fuori dalla sua zona sicura, quella in cui – da sempre – è definito imbattibile. Quando è più debole, noi lo sappiamo. A questa nostra consapevolezza può rispondere in due modi: stupendoci del tutto, o facendoci dire un banalissimo, e premeditato, “immaginavo”. In questo senso, c’è un regista nel mondo seriale che ci ha sempre spiazzati tutti. Con lui abbiamo un rapporto conflittuale: lo amiamo alla follia, ma una parte di noi – purtroppo – non lo tollera, e di questo la colpa è solo sua. Stiamo parlando del poliedrico Ryan Murphy, e della sua debole resa in Halston. Ma state tranquilli: adesso vi spieghiamo quale sia davvero il problema. Se questa serie vi è piaciuta, non è ancora il momento di storcere il naso.

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Partiamo dal principio: come detto, noi amiamo Murphy. Lo amiamo dai tempi di Glee e di American Horror Story, le sue due figlie preferite, anche se una – via via con il tempo – la sta lentamente abbandonando. Ed è proprio da questo punto di vista che dobbiamo partire ricordandoci il buon vecchio tempo della Serie Tv horror antologica più famosa del mondo seriale. AHS era partita alla grande riuscendo a essere – nel migliore dei modi – il personalissimo calderone di Ryan Murphy in cui all’interno trovavamo tutte le sue estremizzazioni, le sue follie. A questo univa anche la sua sete di umanità, la sua sete di un racconto che potesse andare oltre il solo horror, e che quindi toccasse delle vette più alte. Cosa succede, quindi? Succede che per le prime quattro stagioni (nonostante qualche debolezza) American Horror Story diventa il vero manifesto di Ryan Murphy, la sua firma perfetta. Era estremo, poteva giocare come voleva. E lo stesso poteva fare all’interno di Glee utilizzando degli studenti di un liceo americano per dissetare tutte le sue fantasie, tutte le sue follie. Aveva carta bianca, e nessuno che potesse rubargli la penna. Ma se in Glee riesce a mantenere questo trend, in American Horror Story – a un certo punto – gli si scaricano le pile. Le stagioni dalla quinta in poi, infatti, hanno cominciato a sembrarci stanche, fragili. Però, nonostante queste ovvie pecche, sentivamo sempre al loro interno la presenza di Murphy: era chiaro che lui ci fosse, così come era chiara e leggibile la sua firma. Il problema di American Horror Story, probabilmente, risiede nella sua incapacità nel lasciarla andare, di darle una fine definitiva.

Proprio per questo motivo, forse, Murphy cerca di non lasciarla andare decidendo di dar vita anche a uno spin off dove per più puntate viene omaggiata la Murder House, la casa che lo ha reso uno dei Re indiscussi del panorama horror seriale. Durante la visione della serie, siamo consapevoli del fatto che lo spin off non può avere alcun paragone qualitativo con la serie madre, eppure – ancora stavolta – riusciamo a sentire la sua traccia. Anche se male, Ryan Murphy è a casa sua e può fare quello che vuole. Lui è la mente, e ogni cosa segue solo la sua direzione. Ha il diritto di estremizzare, di cadere nelle sue trappole folli, e di dare al pubblico quel pezzo di sé che ho la reso quello che conosciamo.

Eppure, caro Murphy, puoi essere spavaldo e folle quanto vuoi, ma tu un punto debole l’hai eccome, ed è più tangibile di quanto si creda. Il punto più debole della tua carriera l’hai appena toccato, e porta un nome che non è di tua creazione. L’hai subito, così come hai subito tutto il resto: Halston.

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Ryan Murphy, con la Serie Tv original Netflix Halston, ha deciso di dar vita a una biografia. Concentriamoci per un attimo su un aspetto banale e ovvio, ma che ha tutta la necessità di avere la nostra attenzione: una storia biografica è una storia imposta, uno schema già scritto a cui bisogna sottostare, a meno che non si voglia fare un altro tipo di lavoro. Tarantino in questo senso ha utilizzato spesso una carta che si è rivelata vincente, scegliendo di utilizzare eventi reali – come l’omicidio Manson e la Seconda Guerra Mondiale – per creare delle nuove storie con epiloghi totalmente differenti. Ha fatto rivivere Sharon Tate ridandole un finale diverso, felice. In questo senso, quindi, comprendiamo bene che il nostro Tarantino abbia trovato una valida alternativa nei confronti delle storie reali, riuscendo a unire ciò che è successo davvero alla sua immaginazione. Ecco, ed è proprio qui che torniamo all’origine del nostro discorso: Murphy non ci riesce, e Halston ne è stata la prova.

Quello che viene da pensare nel guardare questa serie è che Ryan Murphy non ci abbia neanche effettivamente provato a portare la narrazione dal suo punto di vista. In questa serie è totalmente assente, non si vede. La sua firma è inesistente, e i tratti che da sempre lo caratterizzano non si fanno spazio all’interno della storia. Ed è in questo modo che lui, per la prima volta, subisce la storia che – nel frattempo – stringe sempre di più la sua morsa. Non è più lui il dominatore. In questo caso, deve accontentarsi di essere il dominato. E purtroppo, questa dominazione avviene anche male.

Perché Halston non è un buonissimo prodotto, e la firma assente di Murphy è solo uno degli effettivi problemi a riguardo. Cade nei cliché di un artista stereotipato, e la narrazione fatica a ingranare. Tutto sembra dirigersi verso un annunciato fallimento. Ed effettivamente, dalla sua uscita, questo prodotto non ha mai urlato. E non ha neanche fatto urlare.

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Proprio con questo prodotto scopriamo a tutti gli effetti quello che forse abbiamo sempre saputo: Ryan Murphy sta scomodo in tutti quei progetti che non gli danno la possibilità di spaziare e fare come decide lui. Ha bisogno di costruirsi la strada e non sa affrontare al meglio delle sue capacità le strade anche solo spianate. Sente la difficoltà di quelle buche perché lo costringono a rilegare la sua fantasia, e la sua estrema follia. Halston era un artista di cui tutti conosciamo la storia, e modificarla non era in programma. Murphy, in questo modo, sceglie di essere – per una volta – più normale, e di affidarsi a quello che è stato già scritto. Ma questo sforzo e questa normalità rendono il prodotto non all’altezza, e fanno preoccupare anche i fan più affezionati che non sono riusciti a riscontrare alcun tipo di firma all’interno della serie. Riscontriamo i punti deboli praticamente ovunque, anche nelle cose in cui il regista si è sempre dimostrato al meglio. Un esempio? I personaggi. La loro caratterizzazione risulta debole, superficiale. Appaiono e scompaiono, e lo fanno senza una giustificazione. Sembra che Murphy li abbia dimenticati, o peggio, che sia troppo concentrato sul protagonista da dimenticare tutto il contorno. Ma noi, che lo conosciamo bene, lo sappiamo: il perimetro che circonda la storia, per lui è importantissimo. Ma dov’è, adesso?

Non c’è, e non c’è perché Murphy si è auto sabotato nel peggiore dei modi scegliendo di mettersi in estrema difficoltà da solo. Ha dato vita a un protagonista pieno di stereotipi che lo hanno obbligato a raccontare qualcosa che in giro era stata già raccontata, e una cosa del genere – per lui – dovrebbe essere un disonore, un punto bassissimo. Perché che Murphy possa non piacere è più che legittimo, ma quello che ha raccontato – fino ad adesso – non è mai stato raccontato da nessuno. Ha sempre avuto un modo tutto suo, e che probabilmente – in altre mani – non avrebbe avuto lo stesso successo. Però l’irreparabile è accaduto, e non può prendersela con nessuno più che con se’ stesso. Ha cercato di dar vita a una storia già scritta, ma l’unica cosa che ha dimostrato è che i compiti assegnati non sono il suo forte. Lui è un maestro nei temi liberi, in quelli in cui puoi inventarti di sana pianta ogni cosa, fregandotene se sia vera o meno. Ed è proprio questo il dettaglio che forse gli è mancato ancora di più durante la serie: la sua strafottenza. Lui se ne frega sempre, di tutto. Agisce solo secondo il suo punto di vista, anche se questo potrebbe affossarlo. Va oltre ogni perversione, oltre tutti i confini. Con Halston, la sua tendenza al fregarsene di tutto e fare come volesse ha dovuto star buona e sottostare al dovere di raccontare una storia. L’impresa non è riuscita, e Murphy ha perso cadendo in una trappola da cui potrà uscire solo grazie a una nuova illuminazione. Una di quelle in cui tornerà libero, e tornerà davvero Murphy. Il folle, sgangherato, perverso, strafottente e narcisista Murphy.

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