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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste incappare in spoiler su Due Tombe.
Netflix la chiama miniserie, ma Due Tombe (disponibile dal 29 agosto scorso) assomiglia più a un film che ha avuto un attacco di ansia da prestazione e si è scisso in tre episodi. Un thriller spagnolo che punta tutto su una sola carta: Kiti Mánver, nonna vendicatrice con martello in mano, letterale e metaforico. La carta vincente c’è, il mazzo invece è mal mischiato.
La storia è lineare: due ragazze scompaiono dopo una festa patronale in un paesino sperduto, di quelli da cartolina. Paesino che improvvisamente diventa un covo di droga, sfruttamento e abusi.
Dopo due anni una delle due giovani viene ritrovata morta, restituita dal mare. L’altra – Veronica – resta sospesa nel limbo. E Isabel, la nonna, decide che se la giustizia non scava, scaverà lei. Il titolo richiama un antico proverbio attribuito a Confucio: “prima di partire per la vendetta, scava due tombe”. Peccato che qui, alla fine, non si capisca bene chi abbia scavato cosa.
Due Tombe: una regia tra tensione e scivoloni
La regia di Kike Maíllo, coadiuvato da Agustín Martínez cerca il crudo, il diretto, quasi il documentaristico. E a tratti ci riesce: il mare nero che restituisce un corpo, i silenzi ossessivi della protagonista, le notti tra le montagne. Ma poi inciampa. Il fischiettio radiofonico che svela la sparizione di un personaggio. Un vecchio amico che ricatta la nonna per compagnia. Un mafioso che ricorda il Conte in esilio di Gomorra, solo perché ci troviamo in Spagna. In quei momenti, la tensione si scioglie e il realismo lascia spazio al camp involontario.
La fotografia fa il suo compito senza mai sorprendere. L’Andalusia è splendida, ma limitarsi a mostrarla al sole non basta a dare identità visiva: il rischio è che sembri un reality show del crimine travestito da thriller.
Una sceneggiatura che tocca tanto ma non approfondisce niente

Il collettivo Carmen Mola, dietro alla scrittura, ha scelto la via della saturazione: violenti abusi, mafia locale, fallimenti della giustizia, legami familiari corrosi. Perfino la siccità. Tutti temi forti, toccati con crudezza, ma solo sfiorati. Non si scava mai davvero, nemmeno quando ci sarebbe materia drammatica enorme.
Rafael, evocato da tutti come il super delinquente del paese, è l’esempio perfetto. Un fantasma di cui si parla continuamente ma che non fa mai nulla di veramente mostruoso. Nemmeno quando tortura per ottenere informazioni. Il risultato è un personaggio costruito a metà, che perde potenza e credibilità. E certi inserti sembrano nati più da nottate di scrittura di fretta che da reale progettualità narrativa.
Il corto circuito peggiore arriva con l’ambientazione. Un paesino di poche anime dove tutti dovrebbero conoscersi, e invece nessuno sa nulla. Però nello stesso luogo si tengono feste da jet set con droga, VIP e minorenni sfruttate. È difficile sospendere l’incredulità: in una grande città, con l’anonimato che nasconde e corrode, la vicenda avrebbe avuto molto più senso. E credibilità.
Due Tombe: le famiglie che restano in superficie
I rapporti familiari sono il terreno dove Due Tombe avrebbe potuto scavare davvero, e invece rimane in superficie. Il padre, vedovo, è il personaggio più fragile. Gestisce un ristorante sempre pieno, è perennemente assente e incapace di essere una guida, tanto che sembra vivere più tra i tavoli del locale che accanto alle figlie. La nonna Isabel, insegnante di pianoforte in pensione con un passato da fricchettona nelle comuni, non perde occasione per sminuirlo: lo tratta come un eterno ragazzino, dimenticando di averlo lei stessa abbandonato da piccolo. Questa tensione madre-figlio resta accennata, ma sarebbe stata una miniera drammatica potentissima.
Le due figlie rappresentano l’adolescenza contemporanea: selfie, balletti improvvisati davanti alla tv, la leggerezza di chi non si rende conto del baratro che si spalanca intorno. Ma anche qui manca lo scavo: la maggiore è quella su cui la narrazione insiste, mentre la minore resta quasi invisibile, un dettaglio in fondo all’inquadratura.
È in questo contesto che esplode l’unico vero lampo di sincerità della serie. Quando Veronica dice alla nonna che è egoista, rompe il silenzio che aleggia sulla famiglia. Isabel prova a liquidarla attribuendo le parole al padre, ma la risposta della ragazza è un pugno nello stomaco. “No, è quello che hanno visto i miei occhi. Ma va bene così, siamo tutti diversi, ognuno vive la vita come riesce e crede.” In quei pochi secondi, Due Tombe smette di essere un thriller e diventa un dramma familiare autentico. La verità nuda e cruda, senza filtri, che mette in crisi la figura dominante di Isabel molto più di qualsiasi indagine di polizia.
Il cast tra punte di forza e debolezze

Kiti Mánver è il cuore e il motore della serie. Ogni gesto, ogni sguardo porta con sé il peso del dolore e della rabbia, rendendo Isabel un personaggio che cattura l’attenzione in ogni scena. È lei a reggere l’intera impalcatura, e quando appare, Due Tombe trova spessore e credibilità.
Álvaro Morte, invece, fatica a convincere. Le recensioni spagnole evidenziano in maniera più che positiva il suo accento andaluso definendolo “sorprendente” soprattutto se paragonato a quando interpretava Il Professore ne La Casa di Carta. Se le recensioni sottolineano il tuo accento, qualcosa non quadra, però. Del resto il suo personaggio, come già detto, resta più evocato che realmente incarnato. Purtroppo.
Hovik Keuchkerian ha tra le mani un ruolo potenzialmente molto ricco – padre, vedovo in crisi, uomo spezzato – ma non riceve abbastanza spazio narrativo per renderlo davvero memorabile.
Il resto del cast vive un po’ della stessa sorte dei personaggi che interpreta. Ruoli spesso troppo abbozzati, che avrebbero meritato maggiore sviluppo. Alcuni comprimari, con dinamiche narrative un po’ improbabili, finiscono per sembrare idee curiose più che figure compiute. Non è colpa degli attori, che fanno il possibile con ciò che hanno a disposizione, ma di una scrittura che in più di un caso preferisce il colpo di scena alla costruzione psicologica.
Due Tombe e il valore delle verità scomode
Due Tombe non è una cattiva miniserie ma piuttosto una buona idea eseguita in modo irregolare. Ha dalla sua una protagonista atipica e magnetica, alcune sequenze di tensione ben orchestrate e l’intuizione, fresca e coraggiosa, di mettere al centro una nonna come motore di un revenge-thriller. Ma a fronte di questi pregi si accumulano difetti altrettanto evidenti: la scelta di diluire in tre puntate quella che sembra una storia da film unico, l’ambientazione poco credibile, i personaggi che appaiono e scompaiono senza spessore, i colpi di scena tanto rapidi quanto prevedibili.
Ne nasce un prodotto che regala momenti intensi e persino una scena di verità indimenticabile, quella tra Isabel e Veronica, ma che si perde tra incongruenze e vuoti narrativi. Netflix potrà anche chiamarla miniserie, ma la sensazione è di un film travestito, ansioso di piacere all’algoritmo più che al pubblico. E come insegna Veronica, a volte le verità più dure non hanno bisogno di tre episodi: bastano due minuti scritti bene e recitati meglio.






