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Due Estati è l’usato sicuro di cui abbiamo sempre bisogno

Quando ho sentito parlare per la prima volta di Due Estati ho pensato che si trattasse di uno di quei classici teen drama in cui tutti i protagonisti vengono chiamati con un diminutivo perché pare che faccia più figo. Non mi piace ammettere di avere torto, ma in questo caso non potevo essere più distante dalla realtà. Mi è bastato leggere la descrizione su Netflix per capire di essere di fronte a tutt’altro, nello specifico a un thriller le cui vicende sono un intreccio di cose non dette e cose negate, a se stessi e agli altri. Da grande fan del genere non potevo che dare il via a un binge watching che mi ha portato a finire la serie – sei episodi di circa 45 minuti l’uno – in poco più di ventiquattro ore. E che mi ha lasciato con una convinzione ben radicata: Due Estati è l’usato sicuro di cui abbiamo sempre bisogno.

Il peggior gruppo di amici di sempre

Ma partiamo dal principio. La serie racconta la storia di un gruppo di amici belgi durante, appunto, due estati a distanza di quasi trent’anni l’una dall’altra. La narrazione scorre in parallelo, quindi ritroviamo i ragazzi ventenni durante qualche giorno di vacanza insieme nel luglio del 1992 e contemporaneamente riuniti al giorno d’oggi per il cinquantesimo compleanno di una di loro. Sono uno di quei gruppi di amici che si conoscono da una vita, di quelli che non si vedono spesso ma restano in contatto e sfruttano le occasioni speciali per delle belle rimpatriate. Nel caso specifico, si tratta di una rimpatriata extra-lusso in una villa nel bel mezzo di un’isola privata in Francia. Un bel week-end tutti insieme in memoria dei vecchi tempi: cosa può mai andare storto? Praticamente tutto.

Due Estati

Quello che potrebbe sembrare un legame che nemmeno il tempo è riuscito a scalfire si rivela in 0.2 secondi un rapporto fondato su segreti e bugie, oltre che su relazioni degne di Beautiful. Ma il fulcro di tutto, il punto più basso di un’amicizia che sinceramente mi riesce molto difficile definire tale è lo stupro commesso ai danni di Sofie da quasi tutti i ragazzi del gruppo nel 1992, offuscato per trent’anni fino al ritrovamento del video che lo riprendeva. E proprio con questo video Peter, uno dei principali fautori dello stupro, viene ricattato da qualcuno che si trova proprio sull’isola. La maggior parte delle vicende del presente si snoda dunque nella ricerca di colui, colei o coloro che, a conoscenza del video, lo usano per ricattare i colpevoli. Chiaramente tutti cominciano a dubitare di tutti e arriva il punto in cui le cose sfuggono di mano, rivelando sul finale più di una verità fino a quel momento ben nascosta.

Due Estati: un’opportunità non colta

La storia di Due Estati è a dir poco complessa e in alcuni passaggi fin troppo forzata. Il racconto ha sicuramente i suoi pro, come il fatto di fare continuamente spola tra il passato e il presente. Si tratta di una trovata interessante, perché permette sia di conoscere tutto ciò che era successo nel 1992, sia di smorzare un po’ la pesantezza che si sarebbe potuta far sentire ambientando tutte le puntate in un contesto estremamente limitato come quello di una casa. La storia ha inoltre le basi per diventare un bel thriller: un’azione orribile, un gruppo di persone pronte a mentire per tutelare se stesse, il tempo che cerca di limare i ricordi ma non fa altro che aumentare gli attriti. Eppure, la sensazione che ho cominciato ad avere intorno a metà serie e che è cresciuta nel corso degli episodi è di un prodotto che ha avuto l’occasione di trattare per bene dei temi importanti, ma non l’ha colta.

Due Estati

Si parla di stupro, di movimento Me Too, di sensi di colpa, della lotta con se stessi quando si decide di mantenere un segreto che potrebbe causare il dolore delle persone amate. Si parla di soldi, di quanto possano far sentire invincibili chi li ha e buttare a terra chi invece ne ha bisogno. E si parla, come è ovvio che sia, di relazioni, d’amicizia e sentimentali: di quelle che funzionano, di quelle andate male e di quelle che non sono mai davvero sbocciate. Ma lo si fa male, a tratti con superficialità, senza mai cogliere davvero il punto. Se c’è un rischio di mettere tanta carne a cuocere, è quello di non riuscire a cuocere a puntino nessun pezzo. Ed è proprio questo il problema di Due Estati, che nella volontà di raccontare tanto in poco tempo, porta con sé dei buchi di trama che si fanno sentire. Ma che, paradossalmente, non cambiano il fatto che noi spettatori continuiamo imperterriti a guardarla.

L’usato sicuro

Ecco, è proprio questo il punto: pur consapevole delle problematicità di Due Estati, io non sono riuscita a staccare gli occhi dallo schermo. E più andava avanti, più succedevano cose che mi sembravano essere un’esagerazione rispetto a una storia già complicata, più continuavo a guardarla. Perché? Perché è un usato sicuro. Non ci sono storie mai raccontate, dinamiche uniche, né momenti di batticuore per ciò che sta per succedere. Ma ci sono eventi che fanno indignare, colpi di scena e un leggero alone di mistero che ti lascia lì, con la voglia di scoprire come sono andate davvero le cose (e soprattutto che ti fa chiedere, ma per quale motivo continuate a frequentarvi?).

Insomma, Due Estati è stato per me un po’ come quelle puntate di CSI che mandano a ripetizione ormai da tempo immemore su Italia 1: sai che c’è un dilemma da risolvere, un colpevole (in questo caso, un ricattatore di colpevole) da trovare, e sai che la cerchia è abbastanza ristretta. Eppure sei lì, a scommettere con te stesso su come potrebbero essere andate le cose. E guai se qualcuno prova a cambiare canale prima di averlo scoperto.

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