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Dept. Q – La Recensione della nuova serie tv crime su Netflix

Carl osserva stralunato
Better Call Saul

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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler su Dept Q

Dept Q – Sezione casi irrisolti, disponibile a partire dallo scorso 29 maggio su Netflix, è una serie che sa raccontare bene una storia complessa, pur senza stravolgere i canoni del genere.
Adattamento televisivo del primo romanzo della fortunata serie danese di Jussi Adler-Olsen, firmato da Scott Frank (già autore tra le altre cose, de La regina degli scacchi), la serie si presenta come un crime psicologico ricco di suspense, atmosfere cupe e un cast d’eccezione.
Sebbene non sia originale nel concept, né perfetta nella durata, Dept. Q convince per il modo in cui viene raccontata: con attenzione ai dettagli e una grande cura nella caratterizzazione dei personaggi. Non è una rivoluzione nel panorama delle serie TV, ma è un prodotto ben fatto, che rispetta lo spettatore e lo tiene incollato allo schermo.

Dept Q: due storie parallele che si completano

Una delle scelte narrative più interessanti di Dept Q – Sezione casi irrisolti è l’alternanza tra due punti di vista. Da un lato il detective Carl Morck e la sua squadra alle prese con un caso irrisolto. Dall’altro Merritt Lingard, procuratrice scomparsa anni prima e tenuta prigioniera in una camera iperbarica.
Questo dualismo permette di costruire un giallo stratificato e coinvolgente, in cui il pubblico vive il mistero da entrambi i fronti. Mentre Morck cerca indizi e ricostruisce il passato, Merritt combatte quotidianamente per sopravvivere e capire chi l’ha rapita. Ogni informazione raccolta da uno dei due aggiunge un tassello all’intero puzzle, creando un effetto a specchio che tiene alta la tensione.

Merritt, interpretata con grande intensità da Chloe Pirrie, non è solo una vittima: è una mente sveglia e lucida, costretta a risolvere il proprio rapimento senza aiuti esterni. Il suo calvario psicologico e fisico è reso con drammaticità, anche se alcune scene si ripetono eccessivamente, appesantendo il ritmo complessivo.
Morck, invece, è un investigatore geniale ma scontroso, interpretato con carisma e profondità da Matthew Goode. Reduce da un trauma personale, forma un team improbabile che riesce a scavare nel passato oscuro della donna, scoprendo legami nascosti e verità dimenticate.

Personaggi profondi, interpretazioni ottime

Il misterioso poliziotto siriano, in Dept Q
Credits: Netflix

Uno dei punti di forza maggiori di Dept Q – Sezione casi irrisolti è senza dubbio il lavoro accurato sui personaggi e la straordinaria resa interpretativa del cast. Il trio investigativo si rivela fin dalle prime scene affiatato e credibile: nonostante i singoli membri partano da storie personali complicate e motivazioni diverse, insieme formano un’unità sorprendentemente coesa e funzionale.

Al centro di tutto c’è l’interpretazione di Matthew Goode, una delle sue performance più intense e articolate. Lontano dai ruoli eleganti e compassati che lo hanno reso celebre (pensiamo a Downton Abbey, A Discovery of Witches o The Crown), Goode si cala con grande efficacia neipanni di un detective scontroso, cinico e segnato da un trauma recente. La sua antipatia iniziale è quasi voluta: Morck è un uomo chiuso, arrogante, emotivamente distaccato, ma piano piano emergono le crepe della sua corazza. Dietro l’apparente indifferenza si cela un senso di colpa lancinante, una fragilità nascosta e una voglia repressa di connettersi con gli altri. Goode riesce a rendere questo percorso con incredibile delicatezza, sfumando gradualmente l’irritabilità del personaggio fino a farne qualcuno di profondamente umano.

Accanto a lui, una vera rivelazione è Alexej Manvelov, nei panni di Akram Salim. Silenzioso, riservato, empatico, Akram rappresenta il contrappeso perfetto alla ruvidezza di Morck. Nonostante il suo passato traumatico e il fatto di sentirsi un estraneo in un paese nuovo, riesce a imporsi come figura centrale del team grazie alla sua intelligenza, al suo rigore morale e a una professionalità spesso sottovalutata. Manvelov regala una performance sobria ma intensa, capace di comunicare molto anche con pochi gesti o uno sguardo.

Altrettanto convincente è Leah Byrne, che interpreta Rose, recluta alle prese con un passato fragile e un presente da ricostruire. Rose ha una mente particolare, acuta e intuitiva, e Leah Byrne riesce a trasmettere con delicatezza la sua determinazione e il desiderio di riscatto. Il personaggio promette molto per il futuro, e la sua evoluzione potrebbe diventare uno degli aspetti più interessanti di eventuali nuove stagioni.

Un ritmo calibrato, seppur lungo

Dove Dept Q – Sezione casi irrisolti potrebbe risultare meno immediata è nella gestione del ritmo. I nove episodi, pur solidamente costruiti e ricchi di dettagli, presentano alcuni momenti di rallentamento, soprattutto nelle sequenze dedicate ai lunghi interrogatori e alle torture fisiche e psicologiche che Merritt Lingard subisce.
Queste scene, ripetute nel corso della serie, rischiano di diventare esasperanti. L’intento drammatico è chiaro: mostrare l’orrore della prigionia, la degradazione graduale del corpo e della mente. Ma la loro frequenza può far sentire il peso delle nove puntate. Alcuni spettatori potrebbero arrivare a chiedersi se ogni scena abbia davvero lo stesso impatto emotivo o se, invece, si assista a una sorta di accumulo narrativo tipico dello streaming moderno, dove le durate dilatate sembrano servire più alla piattaforma che al racconto. Del resto la versione cinematografica danese resta nei canonici 96 minuti.

Tuttavia, questo ritmo lento non è sempre un difetto. Anzi, permette alla serie di scavare a fondo nei personaggi, di dare spazio al dolore, al trauma e alla ricerca della verità. Non è una serie adatta a chi cerca un thriller veloce e lineare. Richiede attenzione, pazienza e una certa disponibilità a immergersi nell’anima dei protagonisti, molti dei quali portano fardelli pesanti, non solo professionali ma profondamente personali.
Il lavoro su Carl Morck, per esempio, ne beneficia enormemente. Il suo percorso interiore, segnato da senso di colpa, trauma e difficoltà relazionali, viene costruito con cura nel tempo. Le sedute di terapia con la dottoressa Irving (una splendida Kelly Macdonald) sono uno degli elementi più interessanti dell’intera serie. Luoghi in cui il dolore viene messo a nudo senza retorica, e dove il carattere burbero di Morck si svela piano piano, rivelando fragilità nascoste.

Dept Q: atmosfere che avvolgono lo spettatore

Merritt, la procuratrice della Corona
Credits: Netflix

Una delle qualità tecniche e narrative più riuscite di Dept Q – Sezione casi irrisolti è il modo in cui riesce a trasformare l’ambiente stesso in un elemento narrativo. L’ambientazione edimburghese, con le sue strade grigie, i cieli bassi, le architetture gotiche e la luce fredda delle giornate nebbiose, non è solo uno sfondo ma un riflesso visivo dell’anima cupa della serie. Le atmosfere sono cupe, opprimenti, talvolta quasi asfissianti, perfettamente in linea con lo spirito dello Scottish noir, quel filone televisivo e cinematografico che mescola mistero, dolore psicologico e ambientazioni urbane cariche di storia e solitudine.

La fotografia, rigorosamente fredda e dominata da toni blu e grigi, enfatizza questa sensazione di distacco emotivo e di isolamento. Gli interni mal illuminati, in particolare quelli del seminterrato del Dipartimento Q o degli uffici della polizia, contribuiscono a creare un senso di chiusura e di fatica esistenziale, specchio dei traumi interiori dei personaggi. I suoni soffocati, il rumore della pioggia, i silenzi lunghi e tesi diventano anch’essi parte integrante del racconto, come se ogni scena volesse immergere lo spettatore in un mondo dove l’aria stessa è pesante da respirare.

Eppure, nessun ambiente è più efficace né più angosciante della camera iperbarica in cui si ritrova imprigionata Merritt Lingard.

Merritt Lingard: prigionia fisica e tortura mentale

Qualche momento prima della sparatoria
Credits: Netflix

La vicenda di Merritt è senza dubbio la più emozionalmente intensa e visivamente coinvolgente dell’intera serie. Prima procuratrice ambiziosa e spietata, Merritt viene rapita quattro anni prima degli eventi principali e rinchiusa in uno spazio claustrofobico e sterile: una camera iperbarica isolata, priva di finestre, illuminata da luci artificiali crude e fredde. Non sa chi l’ha presa né perché. Quello che sa, però, è che deve sopravvivere. Ogni mese, riceve un compito dal suo carceriere invisibile. Ogni volta che fallisce, subisce una punizione fisica o psicologica. La sua mente diventa l’unica arma che ha per ricostruire la verità e tentare di uscire viva da questa gabbia umana.

Chloe Pirrie interpreta questa figura con una potenza disarmante. Riesce a trasmettere sia la determinazione che la fragilità di Merritt, mostrando come la mente umana possa resistere all’orrore grazie alla logica, alla memoria e alla voglia di vendetta. Il suo personaggio evolve progressivamente. Passa dall’odio per il mondo esterno e il senso di impotenza a una sorta di lucida consapevolezza, che lo spettatore vive in tempo reale, quasi dentro la sua pelle. È una performance intensa, fatta di sguardi, silenzi e piccoli gesti carichi di significato.

L’uso che la serie fa di questo spazio chiuso è notevole. La telecamera entra ed esce dalla stanza con movimenti precisi, a volte soffermandosi su dettagli apparentemente insignificanti che, col tempo, diventano chiavi narrative fondamentali. Si crea così un effetto di identificazione totale: lo spettatore non osserva Merritt, ma vive con lei la disperazione, la speranza, il dolore e infine la volontà di ribellione.

Dept Q: non originalissima ma ben confezionata, meritevole di essere vista

Nel complesso, Dept Q – Sezione casi irrisolti è una serie che sa il fatto suo. Non introduce grandi novità nel genere e utilizza modelli ormai collaudati, come il detective geniale e misantropo o il team di emarginati che risolvono il caso impossibile. Tuttavia, la serie riesce a rendere questi elementi nuovamente interessanti grazie alla qualità dell’interpretazione e alla solidità della sceneggiatura.
I richiami ad altre produzioni simili sono palpabili, ciononostante Scott Frank riesce a combinare elementi noti in maniera rigorosa e coinvolgente fino a darci un prodotto che vale la pena di essere visto.

Ma dove Dept Q convince davvero non è solo nella struttura o nei temi, bensì nell’atteggiamento con cui li racconta. C’è rispetto per lo spettatore, per i suoi tempi e per la sua intelligenza. Nulla viene svelato troppo presto, nessun personaggio è mai ridotto a mero archetipo. Ogni scena sembra avere uno scopo, anche quando si limita a farci guardare negli occhi qualcuno che sta soffrendo, senza dire una parola.
Pur soffrendo di una durata eccessiva la serie non annoia mai veramente. Chi decide di seguirla fino in fondo viene ripagato con una narrazione matura, costruita con cura e capace di muoversi tra dolore, vendetta e ricerca di giustizia senza mai cadere nel melodramma gratuito.

Questa prima stagione probabilmente non sarà ricordata per l’originalità. Certamente, però, ha dato vita a un gruppo di personaggi che meritano davvero di tornare. Perché alla fine ci ritroveremo a voler sapere cosa succederà loro, molto più di quanto pensassimo all’inizio.



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