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The White Lotus 3: sarà forse l’assenza di tutto l’essenza di tutto

I Ratcliff, alcuni protagonisti di The White Lotus 3
Better Call Saul

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The White Lotus è sempre stata una serie capace di reinventarsi senza temere di spiazzare. La terza stagione, con il suo minimalismo più marcato (le atmosfere rarefatte e la tensione più psicologica che narrativa) sembra quasi volersi spogliare degli eccessi delle stagioni precedenti per arrivare a un’essenza più pura e inquietante. E proprio questo può essere letto come un atto di coerenza artistica: non inseguire il successo facile ripetendo formule vincenti, ma avere il coraggio di cambiare tono, ritmo e anche pubblico, pur di rimanere fedeli a una propria visione creativa.The White Lotus 3 (disponibile in streaming su NOW Tv) abbandona il barocchismo narrativo delle prime due per abbracciare un minimalismo radicale: meno eventi clamorosi, più silenzi, più tensioni sotterranee.

A prima vista può sembrare un tradimento dello stile che lo aveva reso un cult. Ma a uno sguardo più attento si capisce che è, invece, un’evoluzione coerente.

Con questa terza stagione, infatti, The White Lotus 3 compie il gesto più radicale che una serie di successo possa permettersi: rinunciare a ciò che l’ha resa famosa. Dimentichiamo i drammi iperbolici, le morti spettacolari, i colpi di scena scintillanti: la nuova stagione, rarefatta e minimale, non punta più a scioccare, ma a corrodere lentamente. Dopo due stagioni in cui i drammi sociali, le nevrosi di classe e i giochi di potere esplodevano con brillante ferocia, questa nuova iterazione abbandona volutamente le dinamiche narrative a cui ci eravamo affezionati. Ambientata in uno scenario mozzafiato quanto inospitale, The White Lotus 3 sembra volerci dire che non c’è più nemmeno il piacere di essere corrotti. Il lusso, il sesso, il potere, perfino la spiritualità: tutto appare svuotato, ritualizzato, ridotto a una ripetizione stanca di gesti senza significato.

lo staff del White Lotus nella terza stagione di The White Lotus 3
Credits HBO

A prima vista si potrebbe parlare di una stagione più povera o meno avvincente. In realtà, questa terza stagione porta a compimento in modo più radicale ciò che la serie ha sempre voluto raccontare: la disgregazione lenta ma inesorabile del mito del benessere, la messa in scena di una società che, arrivata all’apice del lusso, si trova privata di ogni significato. Gli ambienti mozzafiato della Thailandia sembrano in questa stagione più ostili che accoglienti, come se anche la natura stessa avesse cessato di essere complice delle illusioni umane. Il minimalismo diventa quindi una chiave estetica e narrativa potentissima: lunghi silenzi, inquadrature statiche, dialoghi frammentati che non risolvono nulla ma, anzi, moltiplicano il senso di smarrimento. È come se i personaggi (e noi spettatori insieme a loro) galleggiassero in un oceano privo di correnti, condannati a un eterno presente senza destinazione.

Ma il vero colpo di genio di Mike White è aver abolito, quasi del tutto, il tradizionale meccanismo della suspense.

Non aspettiamo più un crimine o una catastrofe: aspettiamo il collasso interiore. Ogni episodio è un lento accumularsi di crepe invisibili, un affondare impercettibile in una palude di desideri spenti e parole vuote. Questa è la vera morte che aleggia sulla stagione: non la morte fisica, ma quella esistenziale, silenziosa e inesorabile. Scegliere questa strada è stata un gesto di estremo coraggio. In un’epoca televisiva dominata dall’urgenza di intrattenere, di stimolare costantemente l’attenzione dello spettatore, The White Lotus 3 si permette di rallentare, di scomparire quasi davanti ai nostri occhi. E proprio in questo gesto, apparentemente autolesionista, la serie trova la sua massima verità: il lusso non salva, l’esperienza non redime, il viaggio non trasforma. Tutto ciò che resta, alla fine, è l’incapacità di fuggire da se stessi.

I personaggi affrontano crisi esistenziali che li portano a confrontarsi con le loro paure più profonde (qui la classifica dei migliori personaggi della serie). Alcuni cercano la redenzione attraverso percorsi spirituali, mentre altri si trovano intrappolati in cicli di autodistruzione. Attraverso le loro esperienze, la serie esplora come la ricerca di significato possa portare sia alla salvezza che alla disperazione. Il finale di The White Lotus 3 ci lascia con un senso di inquietante indifferenza. Il resort riprende la sua routine come se nulla fosse accaduto. I protagonisti, i cui destini si sono separati in modi drammatici, non trovano la redenzione che cercavano, né spirituale né personale. Le loro vite continuano a essere quelle di prima: imperfette, incompiute e, in alcuni casi, distrutte. Non c’è giustizia, non c’è risoluzione.

La bellezza del paesaggio, che in qualche modo stona con il caos interiore dei personaggi, rimane invariata, in una distorsione che invita a riflettere su quanto tutto il resto sia effimero. È naturale che una parte del pubblico sia rimasta spiazzata, se non addirittura delusa. Ma nella rinuncia, The White Lotus ha forse trovato il suo culmine estetico e filosofico. In fondo, il vero tema di questa stagione non è più la lotta per il potere o il desiderio di controllo: è l’impossibilità di sfuggire al vuoto. E non c’è nulla di più inquietante – né di più contemporaneo – di questo. Con la terza stagione, questa serie smette di essere una serie sulla società contemporanea: diventa una serie sull’agonia silenziosa dell’anima contemporanea. Un’agonia elegante, soffusa, ipnotica. Un nulla che sa di eternità.