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Tony è stato sia vivo che morto fin dal primo minuto de I Soprano

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale de I Soprano

Questa è la storia del boss di Schroedinger. Un boss vivo e morto nello stesso momento, ingabbiato in una vita che ha tutto della scatola infernale di un sadico sperimentatore. Un loop infinito, degno di un’icona immortale. Il fato di un uomo troppo piccolo per vivere libero fino in fondo, ma troppo grande per morire come farebbe chiunque altro. Un paradosso che non ha niente di paradossale e affonda le radici nell’immane realismo di un racconto, quello de I Soprano, che ha ucciso il suo protagonista fin dal primo momento per fargli vivere una leggenda.

Se si parte da questo presupposto, tutto diventa più chiaro. Soprattutto il destino conclusivo di Tony Soprano, veicolato in infinite discussioni da 13 anni dopo uno dei finali di serie più belli di sempre. Definito dal nostro Vincenzo Di Somma “maledettamente geniale” in un bel pezzo d’approfondimento su Made in America, ultimo episodio de I Soprano, è una conclusione aperta e chiusa allo stesso tempo. Aperta dall’iconico cut to black che ha troncato brutalmente le dolci note di Don’t Stop Believin’ e ha sospeso in un tempo indefinito lo sguardo di Tony. Ma anche chiuso, perché è evidente cosa sia successo (e stia ancora succedendo) tra i tavoli affollati dell’Holsten’s. E non sono necessarie teorie o speculazioni di sorta per dimostrarlo.

Non gli omaggi espliciti a Il Padrino nel ricercare le morti presunte di Tony (il capitano McCluskey e Virgil Sollozzo) o Meadow (Mary Corleone). Non i richiami a frasi evocative pronunciate poco prima (“Nel momento della morte tutto diventa buio”), non gli echi delle note di una canzone. Non i parcheggi sbilenchi di una figlia, non il misterioso sicario, il climax ascendente degli ultimissimi minuti o la puzza di morte che si respira già nel primo istante dell’episodio nel momento in cui giaciamo per l’ultima volta sul letto di vita del boss. No, niente di tutto questo. E meno male.

Perché è inutile domandarselo almeno quanto lo sarebbe definire con esattezza cosa diavolo fosse il monolite di Kubrick in 2001: Odissea nello Spazio. O come finisca Blow-Up, uno dei film preferiti del creatore de I Soprano, David Chase. No, non ce ne frega niente di scoprire se Tony abbia abbracciato la morte in quel momento, dopo dieci minuti o vent’anni. Ma quanto abbia affannosamente cercato (invano) di abbracciare la vita fin dal primo momento.

Il boss ci ha provato, ci ha provato disperatamente. E allo stesso tempo non ci ha mai provato davvero. Rifugiatosi tra i toni stonati di una maledizione di famiglia alimentata da sé alla quale scaricare vigliaccamente ogni responsabilità, Tony è sempre stato vivo e morto. Figlio fragile e padre di un figlio distrutto. Almeno quanto il padre, lo zio, il nonno e chicchessia di Gary Cooper non avesse proprio niente. O la madre, maledetta madre. Ingabbiata per sempre nel medesimo tragico loop quanto la figlia devastata. Bei tempi andati, belli non erano affatto.

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L’abbiamo capito nel momento in cui il buio ha riempito i nostri schermi per mettere fine a una serie che con coraggio e benedetta coerenza non ha abbracciato i cliché dei gangster movie anche quando ha deciso di non eliminare il suo protagonista. Ma avremmo dovuto capirlo prima in una delle tante ultime spiagge della vita di Tony, una qualunque. Eterno sopravvissuto, Tony non è mai rinato. Come un Gattopardo qualunque, non ha mai affrontato se stesso e ha cambiato tutto per non cambiare niente. Il più temibile dei villain, il più inscalfibile degli alleati con cui scendere a patti. Inginocchiato al suo cospetto, non ha mai saputo né liberarlosoffocarlo.

Avremmo dovuto capirlo prima, al segno di resa di Jennifer Melfi. La porta chiusa in faccia al paziente impossibile, la seduta perenne interrotta, l’ultimo saluto. Le nuove cadute, i vecchi vizi, le sicurezze acquisite, le criticità insolvibili. Un gatto che si morde la coda, ancora una volta. L’antidoto che alimenta il veleno, la vana terapia. Curato e incurabile, teso verso la morte nel bel mezzo della vita. Convinta da uno studio lucido ma forse fallimentare, a un certo punto la psichiatra ha alzato bandiera bianca. Lasciandolo solo, lasciandoci soli. Nel nero del tutto e del nulla. Senza smettere di crederci dopo non averci mai creduto abbastanza.

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Cosa resta di un racconto quando il finale è stato scritto nel primo incrocio di sguardi col protagonista? Non la trama, non i colpi di scena, non gli intrecci. Non resta il finale, seppure straordinario. Non restano domande perché ogni risposta è stata data. No, non resta niente. Se non gli occhi di Tony, proiettati verso un orizzonte inesauribile. In una stanza definita e indefinita, l’Holsten’s nello spazio profondo. Sospesi in un tempo presente che profuma della gioventù degli anni Ottanta. In compagnia di una famiglia unita e fatta a pezzi, con l’amata odiata moglie e l’odiato amato figlio. Con una figlia in arrivo, per sempre alle porte. Nel momento sereno e tesissimo dell’ordinaria imminenza della fine, manco fosse un gatto. Resta quell’ultima espressione, eterna. E restiamo noi, senza più parole. Arrivati a un traguardo che da 13 anni si sposta sempre un po’ più in là per impedirci di tagliarlo.

Don’t Stop Believin’, nero. Vivo, morto o X, un pareggio con un’infinità di reti. Titoli di… testa: sta per riniziare il pilot de I Soprano.

Antonio Casu

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